di Lorenzo Bianchi
Tutti dobbiamo morire.
Per constatare ciò non è necessario
ricorrere a erudite citazioni di antichi pensatori, acute
osservazioni ottenute tramite ore passate davanti ad un microscopio o
ai file di wikileaks riguardanti il colore dello smalto preferito di
Angela Merkel.
No, questo tipo di evento è facilmente sperimentabile da chiunque, in un qualsiasi momento della giornata è possibile –in via teorica- imbattersi in esso. Giusto mentre sto scrivendo, non posso escludere con assoluta e totale certezza che da qualche parte nel mondo una persona stia morendo. Può essere la vittima di un omicidio a Parigi, o la dipartita per cause naturali di un vecchio contadino indiano, o magari il suicidio di un ragazzo a Melbourne. O magari un nostro parente nella sala accanto a quella in cui vi trovate ora; e via con altri mille e più casi diversi.
Ma non mi interessa parlare tanto del
morire “in sé”, dell’atto con cui nel nostro corpo cessano
tutte le funzioni biologiche che fino ad un attimo prima ci avevano
conservato in vita. A quel punto, aggiungo io, la nostra anima si
separa dall’oramai cadavere e subisce il giudizio particolare, in
base al quale le si apriranno le porte del paradiso, le fauci
dell’inferno o il purgamento per “eliminare le scorie”.
Tuttavia, anche questo al momento è di secondaria importanza.
Ciò su cui vorrei discutere è
piuttosto tutto quel che viene prima: la nostra vita, la mia, la tua,
quella dell’assassinato parigino e del suo omicida, dell’anziano
fattore del Kerala e del giovane australiano e di tutte le altre vite
che non posso prendermi la briga di nominare (non sono esperto di
matematica, ma credo che tentare l’enumerazione di tutte le persone
del mondo porterebbe via un bel po’ di tempo, quindi vedrò
d’accontentarmi).
Dicevo: il punto centrale è il nostro
vissuto, dal gesto più banale all’azione più eroica ed
altruistica, chiedendomi quanto sia legato e visto in ragione di
quella promessa che fra tutte le promesse è la più solenne. Quale?
Ma quella di cui ho parlato sopra, of course: la promessa che ci
viene fatta dalla vita stessa, ossia che la nostra esistenza terrena
si consumerà dopo un numero limitato e sconosciuto di anni, senza
possibilità di inoltrare reclami.
Mi chiedo quindi, quanti tra coloro che
stanno leggendo hanno collegato questi due fatti tra loro, lasciando
che possano venirsi a strutturare l’uno in relazione all’altro?
Non è affatto una domanda banale, perché le premesse non lo sono
affatto: se da una parte infatti sappiamo che finiremo, non
sappiamo tuttavia tutto il resto (come, dove e soprattutto quando e
perché). Inoltre, anche il vivere come se morte non vi fosse non
elimina ovviamente né il dover morire comunque, né l’interrelazione
più o meno forte tra i due: io posso tranquillamente adottare uno
stile di vita esageratamente edonistico, spendendo a destra e a manca
per ogni sorte di confort e di piacere, ma per quanti milioni di euro
io investa o per quanti ritrovati scientifici io usi per allungarmi
la vita ciò non toglie che non possa egualmente trapassare a causa
di un oliva andata di traverso. Evento indubbiamente poco romantico e
indegno di diventare la trama di un film di seconda categoria, ma
tutt’altro che impossibile a verificarsi. Oltretutto, a che pro
comportarsi in questo modo, sapendo che entro poco cesserò di
esistere? Forse che l’abbrutimento morale mi porterà a non vedere
mai la tomba?
“La morte e la vita rimangono uguali”
afferma la canzone Per fare un uomo di Guccini: è
profondamente vero ciò che viene espresso, ma non letteralmente. In
realtà, qualsiasi evento che noi compiamo in vita, volontariamente o
meno influenza anche la nostra morte e ciò che vi è dopo: ogni buna
azione morale o quelle moralmente riprovevoli (risparmiare la vita al
povero francese), il mangiare o meno un determinato alimento
(l’ultima scodella di riso del contadino, anziché una zuppa di
verdure), il fare quella determinata cosa anziché quell’altra
(evitare di saltare dalla finestra per schiantarsi accanto ad un
canguro).
È anche vero, d’altronde, che tutto
ciò non cambia in sé né il vivere di una persona né il suo
morire: per quanto io possa decidere di ignorare la morte, come già
detto, essa alla fine verrà a prendermi, non si trasformerà
magicamente in qualcos’altro solo perché mi sono voltato
dall’altra parte. Stessa cosa dicasi per il vissuto: anche l’asceta
più rigido non può avere fatto a meno di esistere su questa terra
prima di ricongiungersi al Creatore.
Ecco l’interrelazione, vivere la vita
come se ci si considerasse già morti è l’unica via per avere una
buona morte. Questo è comprensibile già con la sola ragione
naturale, tant’è che -ad esempio-i Samurai basavano la loro intera
esistenza su questo assunto (ovvie tuttavia le differenze culturali
tra il Giappone medievale ed il nostro underground culturale
cristiano); qui in Occidente non si contano il numero dei santi,
persone per la maggior parte comuni ma che seppero vivere la loro
vita guardando in faccia il tramonto della stessa. Basti fare il nome
di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, il quale scrisse “Apparecchio
alla morte”, vademecum per una buona vita incentrata sulla
dipartita da questo mondo.
Abbiamo davanti a noi un numero
imprecisato ed imponderabile di momenti: alcuni saranno così
dolorosi che vorremmo non essere mai vissuti per non averli mai
dovuti subire, altri rimarranno impressi nella nostra memoria per la
loro incredibile bellezza, altri ancora ci stimoleranno la più
completa indifferenza. Comunque sia, la certezza della morte dovrebbe
essere quella molla per saper cogliere tutto ciò che di bene v’è
nella vita, insegnandoci ad osservarla con gli occhi dell’eternità.
(Lorenzo Bianchi)
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