Hanno trentacinque, quaranta, massimo quarantacinque anni, e sono pensati come i “promettenti giovani”, il futuro dell'Italia delle mille anomalie, non riuscendo ad esserne il presente. Nati e cresciuti quando la lotta tra Dc e Pci sembrava la storia eterna che si perpetua, il mondo è cambiato con loro, la loro vita è stata scandita dalle tappe della globalizzazione. Nel lavoro hanno trovato l'eredità imprenditoriale dei padri minacciata dai nuovi mercati del lavoro. Nella politica la risposta ai loro sogni, alle loro ambizioni.
Ma in quale politica, è necessario domandarselo. Perché l'impegno in politica dei nati intorno agli anni '70 è iniziato proprio mentre cambiava tutto: crollavano le ideologie, finiva un'epoca e mutavano i valori, e in questa svolta che spaesava, gli allora e tuttora giovani ci si sono ritrovati immersi.
Erano gli anni '90, e mentre Mani Pulite spazzava via le ultime briciole dei partiti tradizionali rimaste dopo il crollo del Muro, nasceva una politica diversa da tutto quello che era prima. L'interprete principale fu chi modellò con un'idea vincente la politica sulla sua persona: Silvio Berlusconi. Travolti dalla sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” e dalle scarsa rilevanza lasciata al Centro dal Mattarellum, tutti, da una parte e dall'altra, si apprestavano a sperimentare il modello Forza Italia. Inconsciamente, nascevano negli oppositori le condizioni per la lunga vita del Cavaliere: nelle minoranze si consumavano ricerche spasmodiche di un leader forte, mentre di pari passo la distinzione politica non si faceva più sui valori, ma sulla dicotomia tra appoggio e opposizione a Berlusconi, in un modello che ruotava (a suo vantaggio) intorno alla sua figura. Se è vero che l'idiota ti trascina al suo livello e ti batte con l'esperienza, il Cavaliere, che fu tutt'altro che un idiota, inventò un modello basato sul personalismo e sulla comunicazione, in cui era il numero uno, trascinandovi tutti gli altri destinati a perdere. Nessuno sperimentò, per paura, modelli alternativi, peraltro preesistenti nei partiti tradizionali (in cui il gioco di correnti faceva sì che segretario significasse rappresentante, non leader assoluto): il nuovo paradigma della politica era il personalismo. L'approccio alla politica cambiò di conseguenza: il modello che ispirava i giovani, divisi tra chi sognava di essere lui e chi desiderava essere al suo posto, era sempre il Cavaliere. Capitanato dalle reti Mediaset, affiorava nella società un mito insito da sempre nel profondo dei nostri pensieri: il successo facile, la fama a tutti i costi. Talent show, veline e (in seguito) reality mostravano un mondo in cui o sei famoso o non sei nessuno. E, giocando con le parole, nessuno vuole essere nessuno. A terminare l'opera il crescente spazio, persino nei telegiornali, del gossip e della“gossipolitica”, in cui il personaggio politico di successo diventa un vip, piuttosto che ad un servitore dello Stato.
In questo contesto politico e sociale è cresciuta la generazione degli “eterni giovani”, che torna adesso alla riscossa dopo anni di assenza dalle scene, dovuta ai sintomi di 20 anni di “politica della gloria a tutti i costi”. La politica è diventata così in tante menti ed esperienze una delle vie per il successo: l'obiettivo diventa sempre più l'occupare posizioni di valore di cui fregiarsi, dentro ai partiti ed alle istituzioni. La carica, mezzo per la buona politica, viene scambiata per il fine. E quando il mezzo è scambiato con il fine, si intende, diventa fine a sé stesso. Nasce di conseguenza il “paese dei 1000 presidenti”: il solo nome accompagnato eventualmente dal prefisso del titolo di studio non basta più a qualificare come personaggio di successo e quindi, nella logica dominante, come persona. Ognuno ricerca la carica che gli dia un tono, nei partiti o creandosi associazioni di cui essere il presidente. Significativo di questo processo è un aneddoto che si attribuisce ad Andreotti, secondo il quale egli rispose, ad un uomo che lo chiamò Presidente: “Mi chiami senatore, che almeno so che ce ne sono solo 315 in Italia!”. Nei giovani, tutto questo ha provocato una serie di conseguenze più o meno visibili. Dapprima, la ricerca di un leader che (come mi scrisse un “giovane già vecchio” dell'Udc in un triste tweet) “dica come pensare in modo libero”. Infine, il bisogno asfissiante di visibilità personale, unica via al successo nella politica del personalismo. Che tradotto significa accomodante assenso ed accoglienza agli ordini dei leaders, attendendo che essi ricambino la fedeltà ricevuta con la nomina ad una carica. La formazione ed il merito tentati in precedenza sono stati sostituiti da cooptazione e fedeltà, valori fondanti delle giovanili di partito dove i giovani vengono allevati all'obbedienza a logiche assurde. In ciò, i giovani che non si piegano a queste logiche, forse i migliori, escono delusi dalla politica e dai partiti. L'arrivo della rete amplifica il fenomeno: prima nei blog e poi sui social network, arriva il momento in cui ognuno può dire la sua. Nessuno ne approfitta quanto i rampanti “polli di batteria” delle giovanili di partito: si esprimono per guadagnare visibilità, si informano sulle nuove opportunità del web, infine si organizzano. E forse è proprio dal web che suona la sveglia del ricambio generazionale la cui dinamica è da tempo bloccata. L'esigenza reale del ricambio, meccanismo fondamentale nelle democrazie, si mischia alla voglia di sfondare nel mondo della politica, e si fa sfida alle generazioni che precedono. In questa battaglia tra generazioni vi sono alcune anomalie. Prima di tutto, è assurdo ed incoerente che a muovere la sfida siano proprio quelli che per anni sono stati complici (nella pratica cooptativa o nell'omertà accomodante) del fallimento politico dell'attuale classe dirigente: chi appoggiava, volantinava, faceva il portaborse per il “padre” che ora vorrebbe“uccidere” oggi non può spacciarsi per vittima e salvatore di questo meccanismo. C'è poi da ricordare che in un sistema democratico funzionante il ricambio non si fa con un conflitto ogni vent'anni, ma è un processo fisiologico, o almeno lo era, e lo dovrebbe, lo dovrà essere.
Il “peccato originale” dell'inceppamento in questo ricambio fisiologico è da ricercare proprio nel rapporto tra la classe dirigente degli ultimi anni e l'eterna giovanile degli attuali sfidanti. Se c'è una colpa assoluta della generazione al potere, è quella di aver preferito giovani assenti o accomodanti piuttosto che giovanili di ragazzi formati e indipendenti, assai più scomode. Un politico prima di lasciare il suo posto non pensa solo al compenso, ma si fa una domanda fondamentale, che richiama agli anni di militanza e di passione ormai sfioriti: “Se vado via io, chi viene?”. L'attuale classe dirigente non lascia perché conosce bene i “mostri” che ha creato e cooptato, e ne ha paura non per il potenziale, ma per i vizi trasmessi loro in anni di formazione al contrario. Lasciando i giovani affogare nella politica del personalismo e della cooptazione, i grandi leaders si sono condannati, ingabbiati in un eterno presente concentrato su di loro. Così, più che con i tanti meccanismi economici di cui ci scandalizziamo, ci hanno privati del futuro, anzi del presente.
La grande assente delle generazioni, riapparsa all'improvviso rivendicando la propria fetta, compirà una rivoluzione gattopardesca: cambiare tutto per non cambiare niente. Perché dietro alla battaglia generazionale si nasconde soltanto una gran voglia di protagonismo, mista a poca formazione, ma non una capacità reale di governo. Dietro ai pochi esempi ritenuti brillanti di politici emersi da questa generazione, come Renzi, la Meloni o Salvini (tutti con il vizio del personalismo 2.0), si rifugiano i tanti giovani cresciuti con un'idea di politica già vecchia, incapaci di governare poiché privi di formazione. Pesci pilota che attendono l'avanzata dello squaletto generazionale.
In tutto questo, so di avere eccessivamente generalizzato: non tutti i giovani cresciuti in quell'era si sono piegati a queste logiche, ma purtroppo molti sì. E non nascondo neppure nella mia generazione, gli attuali under 30 in cui ripongo molte speranze, molti vizi simili a quelli di chi ci ha preceduti. Ma credo che, a differenza della generazione degli “eterni giovani”, possiamo ancora salvarci, e salvare questo nostro paese, soltanto con la formazione. Formazione come forma di selezione e preparazione della classe dirigente: nell'Italia che vorrei il criterio della politica non è il solo consenso, ma il merito. Mettersi a studiare, prepararsi, dimostra umiltà e voglia di faticare per passione. La fatica tiene alla larga i raccomandati con i pacchetti di voti precotti, e i cacciatori di facile gloria. Ci aiuta a forgiare giovani che sanno quello che dicono, e che faticando si preparano alle sfide del domani, in cui forse saranno chiamati ad amministrare le città o il Paese. Chi non è abituato a faticare ed a scegliere scansa le scelte e la fatica del governo, chi lo è le affronta: la partita la si vince allenandosi. Magari la partita elettorale la vinci anche con altri mezzi, ma non quella di governo. Se è vero che il politico guarda alle prossime elezioni e lo statista alle prossime generazioni (De Gasperi), ripartiamo ora dalla formazione: abbiamo un disperato bisogno di statisti, abbiamo bisogno e voglia di futuro.
(Giacomo Poggiali)
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