di Ernesto Buonaiuti,Il Pellegrino di Roma
Nel
settembre del 1907 Pio X divulgava al mondo la Enciclica Pascendi
dominici gregis. Son passati più che trentacinque anni da quel
giorno nefasto. Il tempo, che tutto attutisce e tutto placa, non è
riuscito a spegnere e ad assopire in cuor mio l’angoscia
lacrimevole che quel documento mortifero vi suscitò, fin dal primo
istante della sua comparsa. Al contrario, alla luce degli avvenimenti
che da un trentacinquennio a questa parte si sono venuti svolgendo
con furia uraganica e con acceleramento impressionante nei confini
del mio paese e ancor più vastamente nell’universo civile, il
senso di sgomento e di amarezza, provocato dalle martellanti accuse e
dai farisaici e inquisitoriali provvedimenti contenuti nel documento
papale lanciato contro il modernismo, si è fatto e si fa in me tanto
più cocente e tanto più irreparabilmente tragico. Io non ho alcuna
volontà di esagerare l’efficienza di quella enciclica; molto meno
ho una qualsiasi inclinazione, ora meno che mai, a calcar la mano su
decisioni ecclesiastiche, che dovevano incidere così sinistramente
sulla mia missione sacerdotale e sul mio destino umano. Ma se una
legge di causalità vige anche nei fatti storici, e se un intimo
collegamento lega le une alle altre le fasi di un’evoluzione
spirituale e sociale collettiva, io non posso fare a meno di
constatare che l’Enciclica Pascendi è nella storia delle
manifestazioni pubbliche del pontificato romano uno dei gesti, le cui
ripercussioni sono state più vaste e più rovinose.
Il
giovane clero cominciava a destarsi animosamente da un suo secolare
letargo. Il problema della religiosità, del suo contenuto
sostanziale, delle sue concrete espressioni storiche, della sua
realizzazione suprema nella forma datale dalla rivelazione del Cristo
e dalla disciplina della Chiesa, cominciava ad uscire dai chiusi
recinti del monopolio teologale, per diventare alimento e pungolo di
ogni spirito senziente, consapevole dei compiti e delle esigenze
della moralità associata. Dopo secoli di opprimente pedagogia
gesuitica, tutta concentrata nel proposito di monopolizzare la vita
dello spirito e di lasciare gli uomini ad una soggezione passiva di
minorenni e di tutelati, lo spirito pubblico italiano cominciava ad
avvertire, non senza incertezze e non senza esitazioni, ma con salda
volontà di camminare su sentieri propri, la necessità di rinnovare
il logoro suo patrimonio spirituale, perché all’unità
territoriale della nazione corrispondesse una organica e
chiaroveggente compagine culturale. Noi ci eravamo andati abbeverando
a fonti intellettuali straniere, esotiche al cospetto delle nostre
tradizioni, nient’affatto congeniali ai nostri istinti e alle
nostre millenarie consuetudini. L’afflato religioso di cui il
cosiddetto «modernismo» costituiva una prima ancora indistinta
formulazione avrebbe dovuto dare al popolo italiano un orientamento
spirituale in armonia col suo passato, in conformità ai bisogni
dell’albeggiare avvenire. Il febbrile, diremmo quasi dilagante,
entusiasmo con cui il giovane clero si era gettato con un’anima
sola, con avidità famelica, sulla nuova produzione
storico-religiosa, era il sintomo di una volontà di resurrezione e
di una capacità di reviviscenza, che non potevano non essere
riguardate come assistite da un particolarmente benevolo sguardo di
Dio.
Di
questa impetuosa effervescenza sacerdotale in Italia, io avevo potuto
fare la più ineccepibile delle esperienze. Il periodico affidato
alle mie giovanissime mani aveva prosperato in maniera letteralmente
sorprendente. Al terzo anno di vita la mia «Rivista storico-critica
delle scienze teologiche» contava migliaia di abbonati, disseminati
nelle file di tutto il clero italiano. La Enciclica Pascendi passò
come un vento devastatore su questa messe spiegata sui campi della
spiritualità nazionale e la essiccò repentinamente. Il clero, sotto
lo stimolo di una deviante volontà di rivalsa, di un istintivo
proposito di diversione, si gettò a capofitto nelle competizioni
politico-sociali. E quando all’indomani della guerra europea
l’Italia avrebbe avuto più bisogno di raccogliersi austeramente e
spiritualmente in un lavoro di arricchimento culturale e morale che
la rendesse degna del suo nuovo destino, questo clero rissoso e
accaparrante diede corpo, sotto l’egida della Segreteria di Stato,
a quel Partito popolare, che doveva abbattere le sostruzioni della
classe liberale dirigente italiana e aprire il varco alla cosiddetta
rivoluzione fascista. Quel che ne è seguito, inenarrabilmente
macabro, non occorre qui ricordare.
Si
disse che lo stilizzatore della Enciclica Pascendi fosse l’allora
professore di dogmatica nella Università teologica gregoriana di
Roma, il padre Billot. E probabilmente la voce risponde a verità. Il
Billot, che fu poi cardinale, ma smise poi la porpora, perché non
favorevole alla politica della Santa Sede contro il movimento della
Action française, fu una ossuta ed aguzza figura di teologo, scarno
e arido, per il quale la vita religiosa e cristiana aveva assunto la
sagoma di un eterno sillogismo. Come tutti i teologi scolastici in
ritardo, che hanno, attraverso una mummificata schematizzazione
dialettica, perduto completamente il senso fluido delle realtà
carismatiche e delle comunicazioni spirituali che sono al di sopra e
al di fuori di tutte le logomachie della speculazione astratta, il
Billot era funzionalmente incapace di avvertire da presso o da lungi
il contenuto saldo e vigoroso, anche se ancora indisciplinato e
incandescente, che il cosiddetto «modernismo» si portava con sé,
per entro all’insorgere del clero italiano dal suo vecchio
assopimento burocratico. Tutto all’orizzonte sembrava postulare a
gran voce una resurrezione delle anime nella verità che è spirito e
vita. Ma tutto d’altra parte, nelle ammuffite aule dell’ufficiale
insegnamento teologale, provava sdegno e fastidio al contatto
propinquo di questa effervescenza giovanile.
Il
Billot dovette faticare parecchio per ridurre ad unità, e
soprattutto per costringere in uno schema astrattamente filosofico,
il materiale vivente che circolava per entro a tutte le disparate
manifestazioni dell’inquietudine modernistica. Ma il suo proposito,
forse potremmo dir meglio la sua consegna, erano tassativi e
inderogabili. Bisognava assolutamente dimostrare o meglio tentare di
asserire dogmaticamente che il modernismo era quanto di più blasfemo
e di più scandaloso si potesse immaginare sul terreno della
religiosità e della tradizione cristiana. Si doveva pertanto
proclamare, anche se questo comportava la più audace e la più
sfrontata offesa alla realtà della storia e della vita, che il
modernismo era materialismo, era razionalismo, era ateismo, era
anticattolicesimo, era anticristianesimo.
Ebbene.
Per tutto quello che può venire di autorevolezza alla mia parola e
alla mia confessione da questo trentennio di sofferenze che mi ha
arrecato la condanna della Pascendi, io debbo solennemente affermare
qui che mai più grosso oltraggio a quella verità, che è il dovere
elementare di ogni spirito, fu perpetrato nella storia della
tradizione e della spiritualità cristiana. Il modernismo non era
nulla di tutto quello che la Pascendi pretendeva che fosse. Se non ce
ne fosse altro argomento che quello offerto dall’olocausto del
migliore fra noi, Giorgio Tyrrell, questo sarebbe più che
sufficiente. Sulla pietra tombale del suo sepolcro precoce, Tyrrell,
a garanzia della sua fedeltà ai riti della sua vocazione e del suo
sacerdozio, volle che fossero incisi i simboli prodigiosi del mistero
eucaristico: il calice e l’ostia.
Il
modernismo era nato da un leale ed umile riconoscimento della
divergenza insanabile fra le posizioni della teologia ortodossa e le
conclusioni inoppugnabili della scienza storica. Il modernismo era
scaturito dal bisogno irrefrenabile di un manipolo di sacerdoti
pronti a gettare per le loro idee la vita allo sbaraglio, i quali,
dinanzi a realtà storico-critiche nettamente in conflitto con quel
che i teologi continuavano a ripetere dalle loro anacronistiche
cattedre, si sforzavano di trovare una più profonda e più valida
saldatura fra la loro incrollabile fede nei valori eterni del
cristianesimo, religione di fraternità e di pace nella spiritualità
e nei carismi, e la loro docile adesione ai nuovi ideali della
socievolezza umana e della fraternità supernazionale. Senza dubbio,
come tutti i forti movimenti spirituali voluti ed imposti dalla
temperie storica, anche il modernismo sarebbe un giorno passato dallo
stato fluido della sua prima espansione ad una forma schematizzata di
sistema filosofico. Ma non era un sistema e molto meno era un sistema
razionalista ed immanentista che aveva suggerito i primi tentativi
modernistici e le prime aspirazioni ad un rinnovamento del patrimonio
cattolico. Facendo del modernismo essenzialmente e primitivamente un
sistema filosofico, la Enciclica Pascendi commetteva il suo primo
peccato contro lo Spirito Santo: rovesciava cioè il corso naturale
delle cose spirituali e tentava di infamare e di calunniare una
corrente di fede cristiana, applicandole una serie di epiteti e di
contrassegni che costituivano altrettante inique menzogne.
Ma
di un altro grosso e inespiabile peccato contro lo Spirito Santo si
costituirono rei i redattori minori della Enciclica Pascendi, che
alla parte strettamente dottrinale del documento papale, compilata e
redatta dal padre Billot, aggiunsero quella zona inquisitorialmente
crudele, nella quale erano fissate le sanzioni e le pene che
avrebbero dovuto colpire dovunque e in qualunque momento i
patrocinatori prossimi o remoti delle condannate idee modernistiche.
Il desiderio di arricchire la propria cultura e di agguerrire le
proprie capacità apologetiche in conformità alle esigenze e alle
aspirazioni dei nuovi tempi, aveva, com’era perfettamente logico e
naturale, portato tanta parte del giovane clero italiano a cercare
nei capoluoghi di provincia e nelle sedi universitarie quei mezzi di
studio e quelle possibilità di informazioni erudite che erano
forzatamente contese nei piccoli centri. Molti giovani sacerdoti
erano così entrati nella carriera didattica. Altri avevano cercato
nelle sedi universitarie una qualsiasi, pur modesta, possibilità di
libera sussistenza, per poter tradurre in atto la loro vocazione ad
una più alta e solida formazione culturale e religiosa. Contro tutti
costoro la Enciclica Pascendi fu di una spietatezza disumana. Che
tornassero alle loro pievi di campagna: che fossero confinati nei più
solinghi e inaccessibili paesetti di montagna: che fossero spogliati
di qualsiasi mansione di insegnamento e di propaganda culturale. Fu
la vera caccia all’uomo. Io ricordo ancora oggi, con una stretta al
cuore, le lacrime con cui un uomo come Francesco Mari, così
promettentemente iniziato alle indagini critico-letterarie intorno al
vecchio mondo religioso del Vicino Oriente, mi annunciò l’ordine
impartitogli di tornare alla sua diocesi di origine, da dove non
sarebbe più uscito, fino al giorno del suo lacrimato trapasso. Se
uno dei precetti essenziali del cristianesimo è quello enunciato da
Paolo nel suo messaggio ai Tessalonicesi: «Non spegnete lo Spirito»,
mai la Curia ha contravvenuto al suo compito e alla sua missione come
quando, con i provvedimenti disciplinari della Pascendi, ha
soffocato, in innumerevoli anime, il palpito della vocazione più
spirituale e della missione più evangelica.
Commenti
http://www.lulu.com/author/content_revise.php?fPID=17536305#publishedFileInfo
Complimenti per l'ottimo livello del sito, da degni "nipoti"... Continuate così!
Ma il massimo rimane "la Enciclica Pascendi commetteva il suo primo peccato contro lo Spirito Santo". Papa Pio X quindi l'hanno fatto santo per sbaglio? Vorrei ricordarvi che la canonizzazione rientra nell'infallibilità.
Insomma, arridatece Mons. Benigni!
Per il resto, godetevi il vostro fuoco di paglia, che se vi va bene durerà quanto è durata la crisi ariana.