In questa intervista a Gilles Routhier pubblicata su “www.temoignagechretien.fr” del 13 ottobre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org) si afferma che il dibattito imposto dagli integralisti nasconde la vera posta in gioco della ricezione del Concilio, perfettamente percepita Benedetto XVI: pensare la riforma nel quadro del cattolicesimo.
A partire dal discorso di Benedetto XVI del
dicembre 2005, la lettura del Concilio – la sua “ermeneutica” - è diventata un
tema importante del dibattito teologico. Perché oggi?
Tutti i papi hanno dovuto interpretare il Concilio
per attuarlo. Ma è la prima volta che questo viene fatto in maniera così
precisa e formale. Questo dibattito è legato alla controversia con i
lefebvriani.
Questi ultimi hanno cambiato linea
sull'evento conciliare. In un primo tempo, difendevano una lettura di
discontinuità con il magistero della Chiesa, una rottura rispetto alla
tradizione. Per loro, con il Vaticano II, era nata un'altra Chiesa, “modernista”,
“riformata”. Dopo il 1978, Lefèbvre dice di essere pronto ad accettare il
Concilio, a condizione che sia interpretato alla luce della Tradizione anteriore.
Il che significava che spettava all'insegnamento dei papi del XIX secolo
interpretare quello del Concilio, e non l'inverso.
Che cosa significa il concetto di “riforma
nella continuità” difeso dal papa?
È abbastanza sottile e spesso una prima
lettura non è sufficiente. Il papa mette in primo piano la continuità del
soggetto-Chiesa, pur ammettendo il rinnovamento delle forme storiche che può
avere l'insegnamento della Chiesa. Chiede agli integralisti di non vedere prima
di tutto la discontinuità dell'insegnamento, ma la continuità del principio che
fonda insegnamenti apparentemente diversi. Lo stesso soggetto-Chiesa sussiste,
prima e dopo il Concilio, ma le forme storiche del cattolicesimo, legate a
contesti storici determinati, evolvono e si modificano.
Per Benedetto XVI, il Concilio propone
insegnamenti nuovi?
È l'oggetto della seconda parte del suo
testo. Per lui, il Concilio, che aveva come compito centrale quello di
ridefinire un nuovo rapporto tra la Chiesa cattolica e il mondo moderno,
permetterà uno sviluppo dell'insegnamento della Chiesa in tre ambiti: il
dialogo con le altre religioni (Nostra Aetate), il rapporto della Chiesa con il
mondo (Gaudium et Spes) e il problema della libertà religiosa (Dignitatis
Humanae). Si tratta appunto dei temi più delicati per gli integralisti. Il papa
vuole aiutarli a comprendere che questi insegnamenti, che presentano
apparentemente una discontinuità con quello dei papi del XIX secolo, mantengono
la continuità del principio, presentato sotto forme diverse. Quando il contesto
storico cambia, l'insegnamento che ne dipendeva deve rinnovarsi, conservando la
pietra angolare su cui si basava.
Lei parla di nuovi insegnamenti del Concilio.
Perché allora prosegue il dibattito sul suo carattere pastorale o teologico?
Dobbiamo distinguere dogmi, dottrina e
teologia. Il Vaticano II non ha definito nuovi dogmi (1). Ciò detto, presenta
realmente un corpus dottrinale importante, in quanto la dottrina non è composta
solo di dogmi. In senso ampio, il Vaticano II ha svolto un'opera dottrinale che
permette un approfondimento ed uno sviluppo della dottrina della Chiesa
cattolica.
Giovanni XXIII non oppone dottrina e
pastorale. Sostiene invece che il compito del concilio non consiste nel
ripetere in maniera più ampia la dottrina, ma nel presentarla in una forma più
adatta alla nostra epoca e darne una presentazione pastorale.
Se non si può rimettere in discussione il
Concilio, come si può spiegare che il cardinale Brandmüller (2) possa affermare
che Nostra Aetate non ha un carattere dottrinale?
Questa dichiarazione, senza dubbio, è solo il
riflesso di un'opinione personale. Ciò detto, tale linea non è frequente da
parte di un cardinale e resta assolutamente sorprendente. Del resto, il tiro è
stato corretto dal cardinal Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la
promozione dell'unità dei cristiani.
Il discorso del 2005 ha potuto permettere
differenze di posizione di questa natura?
Alcuni ne hanno approfittato per osare di più
nella denuncia del concilio, e proseguire un'opera di siluramento. Si tratta di
una strumentalizzazione del discorso di Benedetto XVI in certi ambienti, ma non
si può basare sulle espressioni esatte del papa. Quel desiderio esisteva già
nell'animo di molti e non solo a Écône, tra i discepoli di Mons. Lefèbvre. Se
non è possibile la messa in discussione del concilio, è però accettata una
libera ricerca su certe cose.
Si può deplorare il fatto che tutto il
dibattito attuale sull'interpretazione del Concilio sia in qualche modo
dipendente dalle negoziazioni con la Fraternità san Pio X. Si dà troppa
importanza a questo gruppo. Pesa troppo oggi sull'evoluzione della Chiesa
cattolica.
Benedetto XVI usa il termine riforma. Che cos'è
una riforma oggi nel mondo cattolico e che cosa permetterebbe?
In “Vere e false riforme nella Chiesa” (1950)
padre Congar scriveva che certe riforme non sono organiche perché non
rappresentano un vero sviluppo del principio cattolico. A suo avviso e in quel momento
(perché in seguito ha espresso diversamente il suo pensiero di questo
capitolo), la riforma luterana non aveva avuto pieno successo perché aveva portato
ad una rottura invece che ad uno sviluppo organico del principio cattolico.
Al contrario, il Vaticano II sarebbe una
riforma nella continuità. Oggi ci si scontra su continuità e discontinuità che
sono solo delle caratteristiche della riforma, mentre il termine riforma, che è
il termine più importante, è praticamente scomparso. Ed è invece la riforma che
bisogna affrontare, non la ripetizione, la stagnazione, il sur-place. E
dobbiamo concepirla nella continuità.
Ci sono teologi che lavorano su questa tematica?
Troppo pochi, e mi dispiace. Ma è una delle
sfide lanciate dal discorso di Benedetto XVI: definire e pensare l'ermeneutica
della riforma. Nel “Peter and Paul Seminar” (3), cerchiamo di fare questo lavoro.
Ci scontriamo con gruppi che non vogliono sentirne parlare e pensano la
continuità come ripetizione. Per loro, niente deve muoversi.
“I frutti del Vaticano II devono ancora
venire”, “il tempo della Chiesa è un tempo lungo”, “la ricezione ha bisogno di
tempo”. Queste affermazioni sono sostenibili nella nostra epoca di circolazione
delle informazioni in tempo reale?
Non bisogna servirsi di queste frasi per
giustificare l'assenza di riforma ed esortare alla pazienza. Nonostante
l'accelerazione della storia, questi argomenti comportano tuttavia una parte di
verità. Le mentalità non cambiano per decreto, ma hanno bisogno di tempo, di
durata e di generazioni. Bisogna distinguere i cambiamenti di istituzione, di
pratica e quelli delle mentalità. 50 anni dopo il Concilio, non ci si può
aspettare che le mentalità siano radicalmente cambiate.
Senza gli anni '60, segnati dalla
contestazione di tutte le istituzioni, la dinamica conciliare avrebbe potuto
continuare ed andare oltre nelle riforme?
Riprendiamo la cronologia dell'avventura
integralista. Uscendo dal Concilio, Lefèbvre ha cercato di proseguire la sua
opposizione lanciando due riviste che non hanno avuto successo. I suoi gruppi sono
stati emarginati. A partire dal 1969 e in seguito alla pubblicazione del nuovo
Ordo Missae, l'opposizione al Concilio ha cominciato a diffondersi. Questa
resistenza è in parte figlia della paura, dello smarrimento. Nel 1968, viene
promulgato il nuovo messale, e viene pubblicata l'enciclica Humanae Vitae (che
riafferma la proibizione della contraccezione “artificiale”, ndr.).
La disobbedienza si manifesta da varie parti.
Alcuni cardinali tra cui Ottaviani (4) firmano una lettera aperta a Paolo VI
sulla nuova messa. Sappiamo che quel testo era stato preparato dai lefebvriani.
Teologi importanti come De Lubac, Balthasar e Ratzinger, tutti fondamentalmente
conciliari, cominciano a cambiare tono, soprattutto a partire dal 1970.Così, Lefèbvre non sarà più isolato e strumentalizzerà le riserve di teologi non integralisti per portare acqua al suo mulino. A partire dal momento in cui padri conciliari credibili e preoccupati esprimono critiche, cresce un'attenzione alla contestazione lefebvriana.
È possibile un nuovo concilio a breve
termine, e per fare che cosa?
Non si sa mai quando viene convocato un
concilio. Dipende in particolare dalla personalità del papa e dalla sua fiducia
e si ignora quale direzione prenderà. Mi chiedo se attualmente sarebbe la soluzione
migliore. Propendo piuttosto per qualcosa di intermedio: una maggiore
sinodalità a livello continentale. Oggi bisogna tenere maggiormente conto della
dimensione davvero mondiale della Chiesa cattolica e pensare al suo governo
facendosi carico di questo aspetto nuovo.
Queste consultazioni potrebbero portare a
decisioni su temi importanti?
Sì, su diversi problemi che non possono essere
risolti allo stesso modo in tutto il mondo. Altre Chiese, come la Comunione
anglicana, strattonata tra Africa ed Occidente, vivono la stessa difficoltà.
Dobbiamo imparare come vivere nell'unità avendo, su certi punti, una disciplina
diversa.
Come per le Chiese d'Oriente. Purtroppo,
questa idea non è sufficientemente discussa. Le assemblee continentali dei
vescovi, propugnate da Giovanni Paolo II alla fine del suo pontificato, possono
portare i germi di frutti che devono ancora venire. Si andrebbe oltre il
modello del sinodo dei vescovi, sempre più marginalizzato nella vita della
Chiesa, e che non tocca più molto i cristiani.
(1) Il Vaticano I aveva stabilito il dogma
dell’infallibilità del papa.
(2) Brandmüller, prete bavarese nato nel
1929, ha presieduto il Pontificio Consiglio dellescienze storiche dal 1998 al 2009. È stato nominato cardinale da Benedetto XVI nel 2010.
(3) In risposta al documento del Gruppo ecumenico di Dombes “Per la conversione delle
Chiese”, dei teologi, tra cui il francese Laurent Villemin, vi lavorano sulla questione:
“Quali istituzioni della Chiesa cattolica romana possono essere modificate, e come, per
favorire l'unità della Chiesa di Cristo, pur continuando a riflettere la fede della Chiesa
cattolica?” (uni-erfurt.de/en/canon-law/peter-and-paul-seminar).
(4) Prefetto del Sant'Uffizio (organismo poi trasformato in Congregazione per la dottrina della fede), fu capofila dell'opposizione conservatrice all'interno della curia durante il Concilio.
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