Cari amici,
Giunti alla fine, dobbiamo cercare il segreto di questo Convegno.
Perché un segreto c’è stato.
Non alludo al segreto del suo successo, che più che un successo è stato un miracolo. Alludo al fatto che durante i nostri lavori c’è stato uno sconosciuto che sedeva nell’ultima fila; spesso era una sconosciuta. Voi forse non li avete visti, ma io, dovendo trarre le conclusioni di questa assemblea, ci ho fatto caso. Mi sono chiesto chi potevano essere questo sconosciuto, e questa sconosciuta, che erano là, e che ora, quasi a volerci precedere ai treni, se ne sono andati. E mi sono ricordato che alla fine del vangelo di Giovanni si parla di uno sconosciuto, di cui non si dice mai il nome, ma che è identificato come il discepolo che Gesù amava; e Gesù disse di lui che sarebbe rimasto, fino al suo ritorno. Gli apostoli non capirono, e pensarono che quel discepolo non sarebbe
morto, ma Gesù non aveva detto che non sarebbe morto, aveva detto di volere che rimanesse fino a che egli non fosse venuto.
Allora io ho pensato che quel discepolo di Gesù che è rimasto, quel discepolo che è senza nome, quasi a poter avere ogni nome, fosse proprio quello sconosciuto o quella sconosciuta che erano seduti in fondo alla sala. E ho pensato che quello sconosciuto poteva essere ciascuno di noi, anzi che potesse essere questa assemblea stessa, perché noi siamo i discepoli che sono rimasti. Noi non siamo gli apostoli, non siamo gli evangelisti, non siamo i dottori, non siamo dei reduci, noi siamo i discepoli.
La successione dei discepoli
Ma come discepoli, anche noi siamo dentro una successione; non c’è solo la successione apostolica, che da Pietro e dagli altri apostoli arriva fino ai nostri vescovi e al papa: c’è anche una successione laicale, che dai discepoli anonimi che Gesù amava, dal discepolo che è rimasto, è giunta fino a noi; e questa successione discepolare non è meno importante dell’altra, perché anch’essa fa parte della Tradizione che viene da Gesù e che insieme alla Scrittura porta con sé la divina rivelazione e rende attuale per ogni generazione la parola di Dio.
Nella storia cristiana si è a lungo dimenticato come nella tradizione viva della Chiesa ci fosse anche la tradizione trasmessa dai discepoli. Anzi si è dimenticato che senza i discepoli non ci sarebbe alcuna tradizione, non ci sarebbe un popolo di Dio, e non ci sarebbe nemmeno la Chiesa degli apostoli. Senza le discepole venute alla tomba vuota, gli apostoli non avrebbero avuto l’annunzio della resurrezione, perché la spiegazione di quella tomba vuota l’angelo la diede alle donne dicendo: non è qui, è risorto; perciò furono le discepole, Maria di Magdala, Giovanna (di cui nessuno mai si ricorda), l’altra Maria, le prime a fare l’esegesi, e un’esegesi ispirata, quasi “dettata dallo Spirito Santo”per usare una formula del Tridentino, della pietra rotolata dal sepolcro. E fu il discepolo che Gesù amava quello che riconobbe il Signore risorto sulla riva del lago: ed è sulla parola di quel discepolo che Pietro si gettò nelle acque per raggiungere il Maestro (Giov. 21, 7). Senza il discepolo, Pietro non si butta.
E anche ora, se noi non diciamo a Pietro: “Ma è il Concilio!”, lui non lo riconosce, e non si getta in mare. Forse è proprio questo che dovremo fare quest’anno.
Ben sapeva tutto ciò Gregorio Magno che dei fedeli che lo ascoltavano e che lui invitava a interloquire nelle sue omelie, diceva che erano “organi della verità”, “organa veritatis”.
Però nella lunga discussione sulle cosiddette due fonti della Rivelazione, Scrittura e Tradizione, nessuno si era più ricordato di mettere nella Tradizione la parte che vi hanno i discepoli: non il decreto “Sacrosancta” del Concilio di Trento, che parla delle tradizioni apostoliche, scritte e orali, conservate nella Chiesa fino a noi, non la Costituzione “Dei Filius” del Vaticano I, che ne riprende la dottrina, e nemmeno lo schema sulle due fonti della Rivelazione preparato per il Vaticano II (ma non accolto dai Padri) che pur moltiplicando le fonti della Rivelazione non faceva alcun cenno al ruolo dei fedeli. Se ne è ricordato invece il Concilio Vaticano II, che nella “Dei Verbum” al n. 7 accanto agli apostoli che sono il primo anello della Tradizione introduce “gli uomini della cerchia degli apostoli”, cioè gli altri discepoli, e che al n. 8, già qui citato da don Molari, afferma come la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce nella Chiesa con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), con la intelligenza data da una intima esperienza delle cose spirituali, nonché (ma dunque non solamente) per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un sicuro carisma di verità.
Il Concilio fatto per i discepoli
Dunque c’è un ruolo dei discepoli nella formazione e nell’incremento della tradizione apostolica. E siccome il Vaticano II è stato un momento privilegiato nella storia di questa Tradizione ecclesiale, la domanda è quale parte noi discepoli abbiamo avuto nel Concilio e quale ruolo abbiamo adesso nella sua ricezione e trasmissione. La nostra assemblea nasce da qui.
Ora, la prima cosa da dire è che il Concilio è stato fatto per noi. Significa questo la decisione di papa Giovanni di farne un Concilio pastorale, cioè tale per cui i discepoli e tutti gli altri potessero capire e crescere nella fede. Se si fosse trattato di riprendere le dispute e ripetere le dottrine espresse dai precedenti Concili, non ci sarebbe stato bisogno di un nuovo Concilio, disse Giovanni XXIII nel suo discorso inaugurale, “Gaudet Mater Ecclesia”. Occorreva invece che i contenuti della fede venissero esplorati ed espressi nelle forme e secondo la cultura degli uomini del nostro tempo, “nel modo che i nostri tempi richiedono”, come dice il testo pronunciato dal papa in latino. La Chiesa doveva farsi raggiungere, come se venisse fatto oggi, dall’invito di Gesù ad ammaestrare e trarre discepoli da tutte le genti, e farlo in modo per loro comprensibile e amico. Cioè si doveva tornare a raccontare la fede che era stata narrata nei secoli, e che si era andata formando di Concilio in Concilio, da Nicea al Vaticano I; non a caso Giovanni XXIII all’inizio del suo discorso richiamava i venti Concili celebrati “in Oriente e in Occidente, dal quarto secolo al Medioevo, e di là all’epoca moderna”. Quella tradizione conciliare, che si era interrotta con la brusca chiusura del Vaticano I provocata dai bersaglieri entrati a Porta Pia, si trattava ora di riprendere, per ripresentare ai discepoli e a tutti gli uomini la fede della Chiesa accumulatasi nel tempo, la fede di tutti i Concili.
Dunque un Concilio che fosse, ai fini pastorali, l’ermeneutica di tutti i Concili.
(Continua....)
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