A
giudizio del grande storico della liturgia, Josef Andreas Jungmann,
celebrare la messa in volgare è un obiettivo tanto desiderato dal
Concilio di Trento, ma felicemente realizzato solo dalla riforma
liturgica del Vaticano II.
Da
quando si è avviata la promozione di una legittima celebrazione
dell’eucaristia con il rito tridentino, si è introdotto l’uso di
denominare quel rito “la messa antica”. Ogni parola ha il
significato che le vuole dare chi la pronuncia e, se dicendo
“antica”, si intende indicare semplicemente la forma rituale
precedente alla riforma liturgica voluta dal Vaticano II, non c’è
problema. Se però si volesse intendere che il rito del concilio di
Trento corrisponde alla forma più antica, quella con cui si
celebrava la messa prima del Medioevo e dell’avvento della
modernità, l’espressione verrebbe a falsare la verità storica.
Il Messale di
Pio V è un’opera moderna. Fu pubblicato, infatti, il 14 luglio
1570, nel pieno degli eventi che caratterizzano l’insorgere della
modernità, dopo la fioritura della cultura umanistica, nell’emergere
di una sensibilità individualistica, in stretto rapporto con il
dramma della Riforma. È vero che la commissione che ne ha curato la
redazione intendeva ricondurre la liturgia nelle forme rituali della
Chiesa romana antica ed, effettivamente, ha realizzato un’opera di
sfrondamento di infinite sovrastrutture che nel frattempo si erano
introdotte.
A
giudizio, però, del grande storico della liturgia eucaristica, J. A.
Jungmann, «questa mèta così elevata non venne raggiunta che in
piccola parte». Che avesse costituito un desiderio dei Padri del
Tridentino, «appare chiaro dal fatto che già nel 1563, quando
ancora si progettava di occuparsi della correzione del messale nel
Concilio stesso, un manoscritto vaticano del Sacramentario
gregoriano venne fatto venire appositamente da Roma a Trento. E
non si trattava di uno slancio isolato, ché anche la commissione si
è preoccupata di studiare le fonti antiche». Però, «non ci si
poteva aspettare che una commissione di pochi uomini, chiamati a un
lavoro pratico potesse venire in possesso, in un paio di anni, di
quelle cognizioni storico-liturgiche che erano destinate a maturare
per la cooperazione di molti solo nel giro di parecchi secoli»
(Missarum Solemnia, I, Marietti 1953, Casale M., p. 117; ed orig.
Herder 1948). Questo risultato, infatti, allora desiderato, è stato
felicemente raggiunto proprio dalla riforma promossa dal Vaticano II.
La
grande liturgia antica
È
anche interessante osservare che il concilio di Trento nel decreto
dottrinale sul sacrificio della messa, pur dichiarando che «non è
sembrato opportuno ai Padri che si celebrasse in lingua volgare», si
è seriamente preoccupato, usando le belle espressioni bibliche, che
«le pecore di Cristo non abbiano a soffrire la sete e i piccoli non
debbano chiedere pane e non avere alcuno che glielo distribuisca».
Per questo si dava mandato ai pastori e a coloro che hanno cura
d’anime di «spiegare di frequente, essi stessi o qualcun altro al
loro posto, durante la celebrazione della messa, qualche parte di ciò
che nella messa viene letto» (Sessione XXII, 17.9.1562, cap. VIII).
Dopo
quattro secoli, le circostanze per le quali a quel tempo era sembrato
ai Padri non opportuno che la celebrazione avvenisse nelle lingue
parlate sono profondamente mutate, per cui i Padri del Vaticano II
hanno ritenuto opportuno ciò che al tempo del Tridentino non lo era,
recuperando così davvero la grande tradizione antica, che ha visto i
cristiani di Roma celebrare in greco e solo più tardi, nel terzo
secolo, adottare il latino, mentre in Grecia si celebrava in greco,
in Siria in siriaco, in Armenia in armeno, e così via. Questa era la
tradizione della Chiesa antica.
Trovo
per questo molto significativo che l’istruzione “Universae
Ecclesiae” della Pontificia commissione Ecclesia Dei del
30 aprile scorso, al n. 26, abbia disposto, per coloro che lo
useranno, una deroga alle rubriche del Messale tridentino,
permettendo di abbandonare il latino per fare le letture bibliche
nella lingua dei fedeli. Al di là dei loro gusti rituali, è
evidente che nessun maggiore vantaggio spirituale essi potrebbero
ricavare ascoltando la parola di Dio in una lingua che non
comprendono. È difficile, invece, non sentir dispiacere per la
perdita che essi vengono a subire, non potendo godere di quella
«lettura della Sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio
scelta» (SC 35) che viene offerta dal nuovoLezionario.
Dal
punto di vista dei gesti rituali, nella proclamazione della parola di
Dio, i cristiani dell’epoca antica non solo mai hanno visto ma
anche, se l’avessero visto, se ne sarebbero molto meravigliati, il
sacerdote leggere i testi dal messale invece che dal lezionario,
sull’altare invece che all’ambone, o il diacono cantare il
vangelo rivolto contro la parete invece che verso il popolo. Basti
pensare che sino alla fine del Medioevo per la lettura biblica si
costruiscono gli amboni. All’inizio del Trecento Giovanni Pisano,
per la proclamazione del vangelo nella cattedrale di Pisa, crea
quell’opera magnifica e tutt’oggi ammiratissima del “pergamo”
(così lo chiamarono, dalla corrispondente espressione greca, i
pisani, perché ha la forma di una torre rotonda, simile a quella
dell’ambone della Haghia Sophia di Costantinopoli).
Quando,
ora che si è ripristinato l’uso antico, l’assemblea dei fedeli,
volgendo lo sguardo verso l’alto, vede apparire lassù, durante il
canto dell’Alleluja, il primo filo d’incenso del turibolo fumante
e poi i lumi dei ceri portati dagli accoliti, quindi l’evangeliario
tenuto alto dal diacono e, infine, la persona del diacono che si erge
sul parapetto dell’ambone per il canto del vangelo, è difficile
che ci si sottragga a un brivido di emozione. La Parola della nostra
salvezza scende dall’alto e ci investe: «Come infatti la pioggia e
la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la
terra, […] così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non
ritornerà a me senza effetto» (Is 55,10s).
Questo
era l’antica liturgia della Parola, vissuta dal popolo con grande
emozione: Paolo Silenziario, descrivendo la basilica della Haghia
Sophia di Costantinopoli, nel suo poema recitato davanti alla corte
il giorno dell’Epifania del 563, ci racconta che si dovette
transennare la solea che congiungeva l’ambone all’altare,
perché quando «colui che annunciò la buona novella»
tornava sui suoi passi «sollevando il libro d’oro», la folla gli
si gettava addosso «per appoggiare le labbra e le mani sul Sacro
Libro» (Fobelli M.L., Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di
Costantinopoli e la descrizione di Paolo Silenziario, Viella 2005,
Roma, pp. 113).
Le
ragioni della riforma liturgica
Per
indicare poi solo alcuni particolari dell’evoluzione delle forme
rituali, è interessante osservare che in epoca antica mai il
sacerdote trovava già posti sull’altare il pane e il vino
dell’offerta, che invece i fedeli portavano all’altare
accompagnati dal canto per l’offertorio (Jungmann II, 24s). La
recitazione del Canone sottovoce è una tradizione che nasce e si
sviluppa solo col trapianto della messa romana in terra franca
(Jungmann II, 108). È diventata celebre nella spiritualità
liturgica moderna la frase: «Surgit solus pontifex et tacito intrat
in canonem» (si alza solo il vescovo ed entra, in silenzio, nel
canone), ma si tratta di una norma introdotta solo all’epoca di
Carlo Magno, per modificare una prassi antecedente. I fedeli hanno
sempre, per tutto il primo millennio, ricevuto la comunione
all’altare e in piedi. Solo nel sec. XIII appare l’uso di
stendere fra l’altare e i fedeli una tovaglia, sorretta da due
accoliti, mentre la costruzione delle balaustre non compare prima del
XVI sec. (Jungmann II, 282). Assai prima, anche se in alcun modo
in epoca antica, cioè nel IX sec., iniziò l’uso di dare la
comunione in bocca, invece che sulla mano del fedele (Jungmann II,
286).
Sull’altare
in epoca antica non solo non c’era il tabernacolo eucaristico, che
non vi compare mai prima del XV sec., ma neppure vi si collocava i
corpi dei martiri, né le immagini del Signore o dei santi. Fu
proprio la collocazione dell’urna con il corpo di san Dionigi
sopra, invece che sotto, l’altare di Sant-Dénis, fuori Parigi, nel
XII sec., a dare inizio a una forma di altare in cui la mensa si
riduceva a una forma stretta e lunga e tale da non permettere più di
celebrare verso il popolo. A Roma, invece, l’uso antico non è mai
stato abbandonato e in San Pietro, ancora nel 1594, papa Clemente
VIII consacrava l’altare, attualmente sovrastato dal baldacchino
del Bernini, sul quale da allora fino ad oggi (così come accadeva
sul precedente altare di Gregorio Magno e poi su quello che gli viene
sovrapposto nel 1123 da Callisto II) il Papa ha sempre celebrato
rivolto al popolo.
Per
indicare un ultimo caso, l’uso di leggere il prologo del vangelo di
Giovanni come rito di benedizione, nato dall’ammirazione per la
bellezza e l’importanza di questo testo, inizialmente aveva
suscitato preoccupazione per la possibile deriva verso pratiche
superstiziose e solo nel 1200 troviamo la prima documentazione della
concessa licenza di recitarlo alla fine della messa (Jungmann II,
334-337).
Queste
osservazioni non intendono avanzare l’idea che nella tradizione
liturgica della Chiesa ci siano epoche buone ed epoche cattive, forme
celebrative autentiche e altre spurie. Ciò che è vero è che ci
sono forme di vita cristiana più corrispondenti ai bisogni del
proprio tempo e altre, valide al loro tempo, ma meno capaci di
rispondere alle esigenze del presente. La riforma liturgica del
Vaticano II ha voluto disegnare una forma della liturgia che risponda
al bisogno della Chiesa di superare l’individualismo dei cristiani
e di fare loro godere la bellezza della comunione, nella
partecipazione comunitaria di tutti all’azione liturgica, per poi
viverla nella prassi della comunità e della sua solidarietà con i
bisogni di tutti gli uomini. Con questa intenzione era naturale
dirigere lo sguardo alle forme liturgiche della Chiesa antica più
che a quelle fissate dalla riforma tridentina in epoca moderna.
Come
abbiamo visto, infatti, osservando l’evoluzione storica dei riti,
dovremmo definire il rito tridentino come la missa moderna e
non missa antiqua. Così come abitualmente facciamo per la
spiritualità diffusa dal Trecento fino all’epoca tridentina, che
tutti chiamano la devotio moderna. Era una spiritualità
fortemente contrassegnata da una sensibilità individualistica,
piuttosto che dalla dimensione comunitaria.
Non
è questa, forse, la differenza più evidente che corre fra la
liturgia tridentina e quella nata dal concilio Vaticano II? Al punto
di partenza dei Padri conciliari era visione della Chiesa, viva per
l’unità di tutti, come corpo di Cristo, nel popolo di Dio: «Dio
volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza
alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo».
Questo popolo è «costituito da Cristo per una comunione di vita, di
carità e di verità» e in tale modo è «per tutta l’umanità il
germe più forte di unità, di speranza e di salvezza» (LG 9).
Don Severino Dianich
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