Angelo
Giuseppe Roncalli, classe 1881, primo papa “italiano” in senso
unitario, nativo delle terre visitate da san Carlo trecento anni
prima, è un prodotto perfetto di ciò che Trento sognava come prete
e vescovo riformato e riformatore. Verso quel segmento di
tradizione che altri ancora identificano
con la tradizione
non ha alcun complesso reverenziale e neppure quella inquietudine
dolente che alimenta il percorso intellettuale di Congar, di Rahner,
di Chenu e degli altri grandi teologi del Vaticano II.
I/ Homo tridentinus?
Per lui quel percorso è adito ad una cultura che lo mette in comunicazione con tutto ciò che per gli altri era proprio da quella impedito. Per questo Roncalli ama fare il prete e ama fare il vescovo: con un rigore anticarrierista e una pulizia morale assoluti. Per questo prete e questo vescovo realizzare il sogno tridentino vuol dire compierlo, inverandolo in un modo nuovo, in una nuova forma. Lo fa per ragioni storiche inerenti a quell’assise, alle sue condizioni, alla sua agenda – tutte cose che il prete tridentino sente con assoluta immediatezza e semplicità: libero dal complesso per cui nella lotta con la Modernità e solo in quella s’invera il rigore della verità, Roncalli esplora una radicale fiducia nell’umano per come si dà, perché è l’umano per come si dà che chiama la redenzione e nei propri segni storici l’esprime già.
È così che Roncalli sente la parola evangelica, la saggezza del Kempis, la retorica dei predicatori, l’allegorismo dei padri, le descrizioni del cerimoniale di consacrazione: ciò che a tutti parrebbe frammentato ed estrinseco, per lui è inserito in un complesso di indicazioni iussive alle quali restare fedele – nonostante il papato, verrebbe da dire, giacché da papa egli assume le funzioni di vescovo di Roma in modo diretto. Ancora una volta senza proclami di rottura e senza nemmeno sentirla a uno stato di coscienza espresso, la rottura; ma nel gusto per il celebrare con il popolo, nella visita alle parrocchie, nel dialogo composto col proprio clero, Roncalli si esprime come un perfetto vescovo tridentino che così rimescola le carte ferme da secoli d’una ierarcologia che avrebbe considerato la definizione del papa come vescovo di Roma poco meno che una forma di offensivo riduzionismo.
Non solo: il vescovo tridentino Roncalli sa che la misura del suo impegno non è un mansionario astratto, ma il principio della salus animarum: e se in Bulgaria, in Turchia e Grecia, in Francia e poi esplosivamente a Venezia il modo di predicare, precipuus episcoporum munus, è oggetto di continue attenzioni, a Roma proprio questa cura – che non ha accessi privilegiati né all’esegesi moderna né tanto meno al pastoralismo à la page – diventa lo strumento con cui i fedeli che lo ascoltano capiscono le sue intenzioni ultime. Una fotografia del 1960 per la stazione quaresimale a S. Sabina ritrae perfettamente il tipo di responsio spontanea che viene dal popolo romano a quest’uomo che non disdegna il ministero episcopale: «Viva il vescovo di Roma!», dice un grande lenzuolo con le grandi lettere squadrate del tifo ciclistico o della protesta sindacale. Proposizione d’una portata ecclesiologica rilevantissima perché, giustamente, pensa che Giovanni XXIII gradirà questa definizione non come limitazione della potestà universale, ma come sua fondazione nel rapporto di paternità e fraternità sul quale verrà nel saluto ai fedeli la notte dell’11 ottobre 1962.
II/ Il fiorire del concilio
È in questa consapevolezza senza noviziato che Giovanni XXIII può dire d’aver sentito “fiorire” dalle sua labbra “la parola: concilio” il 25 gennaio 1959, meno di cento giorni dopo l’elezione alla sede petrina. Prete della generazione nella quale si aspetta un concilio ad ogni passo, Roncalli il suo concilio lo annuncia a freddo, avendo acquisito, per rispetto a un’idea della fisiologia di curia e al conclave che s’attendeva da lui questa scelta, il parere del segretario di Stato da lui stesso nominato, Domenico Tardini. Lo annuncia insieme a tutti i “però” che gli sono stati offerti – il concilio va bene, però bisognerebbe riformare il codice; il concilio va bene, però ci vorrebbe un sinodo per Roma – e lo annuncia con la sensibilità di chi sa che «diciassette anni dopo la fine della guerra mondiale è tempo di curare le cicatrici» dei due conflitti che hanno chiuso un’era e ne aprono una nuova nella quale il prete tridentino sta, senza paure e senza illusioni pessimiste su ciò che attende il mondo, come dirà enunciando la dottrina della misericordia nel discorso di apertura del concilio che credo andrebbe semplicemente riletto per lo spazio che esso fa ad una visione non spiritualistica della fede. Un “fuori onda” catturato dai microfoni Rai documenta la reazione di Roncalli alle voci su di lui:
Qualcuno dice, ho sentito dire anch’io, che il papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì del bene. Ma già, io non so distaccarmi – naturalmente, a mio modo – dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che infondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento.
Seguire l’esempio di Gesù benedetto «a modo mio», come aveva capito dal 1903, ci conferma Il Giornale dell’Anima: è il novum assai poco originale che Roncalli porta e porta al papato in quanto cristiano. Un cristiano che ha la possibilità di convocare un concilio e lo “convoca”, che sente il compito di fare esprimere tutte le istanze della chiesa e le “esprime”, che ha il potere di aprirlo e con tutta evidenza “apre” un concilio che si tipizza come nuovo a partire dal suo carattere “pastorale”.
III/ Gaudet
Certamente per Roncalli il Vaticano II è così – pastorale – e non può che essere così: lo dirà in Gaudet mater ecclesia, l’allocuzione di apertura del Vaticano II l’11 ottobre 1962 che risulta in- comprensibile a chi cercava il programma del concilio, anziché coglierne l’opportunità rinnovatrice specifica che il concilio in quanto tale porta con sé.
Per Roncalli c’è una forma del magistero alla quale il Vaticano II si deve adattare ed è quella pastorale: quella non che si occupa di minuzie parrocchialesche, ma del modo di dire la verità coerente con la natura salvifica e misericordiosa della persona di Gesù. Un criterio talmente esigente e semplice da risultare impervio e incomprensibile a tanti, allora e poi, rispetto al quale categorizzazioni inventate allo scopo di bollire il Vaticano II in una zuppa di insignificanze e di fioretti sbiadiscono.
Il concilio “dottrinale” che nel ranking della teologia di scuola starebbe al vertice della classifica dei concili era ciò che, secondo colui che deve essere considerato il padre del Vaticano II, non aveva ragion d’essere hic et nunc. Non c’era bisogno di un concilio per ripetere la dottrina risaputa, nella quale i processi teologici di ricezione e quelli storici di decantazione avevano già distinto l’irrinunciabile dal caduco, l’ideologico dal necessario, il vivo dall’inutile, o per dirla congarianamente il sistema dalla verità. Il punto in discussione era restituire al vangelo la sua eloquenza: questione di “rivestimento”, come la definirà in Gaudet mater Ecclesia, perché il vangelo ha comunque un rivestimento e si denuda solo a valle della sua comunicazione e mai prima, per l’homo tridentinus che Roncalli è.
Quella di Roncalli è una visione della verità cristiana e della sua istanza intima di comunicazione che non ha bisogno di grandi rinnovamenti di tipo sistematico e di gesti esteriormente dirompenti per esprimersi. Per sé dunque Roncalli tiene non un residuo, ma ciò che gli è proprio: il gusto e la soddisfazione di essere un cristiano che rimane tale mentre scorrono dietro, dentro, sopra di lui le quinte del Novecento, senza mai riuscire a scalfire la sostanziale apertura teologale all’umano.
IV/ L’umanoÈ lì, alla fin fine, che il cristianesimo di Roncalli approda, con una posizione decisiva e ancora una volta talmente trasparente da prestarsi a non poche semplificazioni brutali. L’umano di Roncalli non ha nulla a che spartire con la “svolta antropologica” della teologia degli anni Sessanta e con i suoi sottoprodotti pastorali o addirittura politicistici di fine secolo XX. Lettore dei padri greci in improbabili riunioni di declamazione con gli ambasciatori cattolici in Oriente, Roncalli non utilizza nemmeno le categorie della théōsis, la divinizzazione come destino escatologico dell’umano, alla luce della quale anche l’esperienza concreta prende luce. Men che mai condivide quella sensibilità della morale del tardo Ottocento che considera l’umano come un cadavere per esercitazioni autoptiche volte a erudire il confessore che (per questo?) finirà il secolo successivo da disoccupato. Neppure è roncalliana una delle due visioni che, dal concilio in poi, si affrontano senza esclusione di colpi e che Joseph Komonchak ha giustamente individuato come una delle chiavi ermeneutiche del Vaticano II e della sua ricezione.
Roncalli non appartiene alla grande e bipartita famiglia culturale dei tomisti: fra loro sono possibili posizioni molto diverse – da quelle più arditamente riformatrici a quelle più ottusamente conservatrici. Giovanni XXIII non risente del neotomismo leonino e nemmeno della rivisitazione scolastica in funzione antimodernista: il suo Tommaso si riduce a qualche formula, a piccole tesi, e non è mai materia di lettura.
Tanto meno, però, Roncalli appartiene all’altra schiera decisiva al Vaticano II, quella degli agostiniani. Sono coloro che non di rado iniziano il loro percorso da posizioni molto radicali, o addirittura eversive, in nome d’una affermazione del soggetto che è assai più forte di quella con cui si afferma la chiesa. Ma è proprio in questasensibilità spirituale, prima ancora che teologica, che nascono i più forti ripensamenti davanti alla complessità dello sviluppo del concilio e della sua ricezione. Un pessimismo radicale sulla ferita del peccato, una disistima del costruire umano nel quale anziché l’invisibile dito di Dio si vede all’opera la superbia dell’individuo, li porta a considerare ogni sforzo di riforma banale, fallimentare, modesto rispetto a quel dinamismo interiore che solo garantirebbe dell’autenticità del progresso e che, proprio per la sua inafferrabilità, dev’essere messo fra parentesi e sostituito da un’adesione passiva allo status quo. Cose del tutto estranee a papa Giovanni, che invece si muove su un altro piano.
Proprio la ripetuta tragedia bellica lo ha messo a contatto con il mondo delle vittime in un modo che interagisce inattesamente con la sua fede: le centinaia di ragazzi che muoiono nelle retrovie dove lui trascorre il “Guerrone”, il rumore della rivoluzione staliniana ben udibile dalla Bulgaria del primo decennio dopo la morte di Lenin, il contatto con la shô‘âh sulle rive del Bosforo dove i più drammatici racconti e documenti sullo sterminio degli ebrei arrivano come anteprime dalle mani degli agenti di Jewish Agency, l’assistenza in presa diretta alla risurrezione della democrazia francese e alla nascita dei nuovi organismi della diplomazia multilaterale, gli fanno guardare con occhi diversi gli sforzi successivi di regolazione dei conflitti, di costruzione della pace e di distensione.
Su quegli sforzi non è raro trovare espressioni roncalliane che si allineano millimetricamente alla diffidenza o addirittura alla contrarietà del magistero prevalente: ma quando questi sforzi diventano espressione di persone concrete, quando su di esse egli deve esercitare una responsabilità diretta, ecco che scatta inattesa l’apertura di credito, la concessione di fiducia, la solidarietà. Può accadere con gli ortodossi bulgari o con gli uomini del sionismo di stanza a Istanbul, con i deputati dell’Mrp francese [Mouvement Républicain Populaire, partito politico di ispirazione cristiana] o con i giovani fanfaniani di Venezia favorevoli all’apertura a sinistra (dai quali prende le distanze, ma sui quali distende un mantello di protezione rispetto alle durezze che sente incombere su questi che sono «figlioli» e sono «buoni»). O ancora può accadere attraverso una generosità di tratto che l’interlocutore capisce benissimo e che Roncalli solitamente annota nelle agende con formule evasive («ci siamo intesi bene») laddove i contenuti sono quasi sempre effettivamente stati evasi…
Il modo in cui Roncalli interpreta questa apertura all’umano come chiave dell’universalità reclamata dalla funzione papale non fa riferimento isolatamente alla funzione di pastore della chiesa universale, ma alla paternità e al munusdel vescovo che unifica questa a quella chiamata. Giovanni XXIII si sente così vocato a uno sforzo di comprensione di tutti, di cui la distinzione fra errore ed errante – citazione dell’Ipponense rimasta inerte da secoli – acquista un dinamismo suo proprio in vista del concilio e dentro il concilio. Perché proprio come incontro liturgico con il volto di Cristo il concilio riceve il compito di far pace non con la Modernità, come temeva il Sillabo, ma con l’umanità alla ricerca di pace.
V/ L’inizioProspettiva portatrice, com’è naturale, di conflitti: conflitti fin lì già vinti da un ecclesiotipo che don Giuseppe De Luca evocava davanti a uno che ben li conosceva come Giovanni Battista Montini, ricorrendo a una metafora eloquente: quella dell’avvoltoio, che attorno all’anziano capo della chiesa si leva.
La Roma che tu conosci e dalla quale fosti esiliato non accenna a mutare come pareva che dovesse pur essere alla fine. Il cerchio dei vecchi avvoltoi, dopo il primo spavento, torna. Lentamente, ma torna. E torna con sete di nuovi strazi, di nuove vendette. Intorno al carum caput [scil. papa Giovanni] quel macabro cerchio si stringe. Si è ricomposto, certamente.
Proprio perché questo era un apparente destino, lo sforzo che fa di Roncalli ciò che oggi è meritevole di uno studio rigoroso, ma non qualunquisticamente erudito, è il fatto che quel passaggio segna (come Calcedonia, per il cui concilio Karl Rahner aveva coniato il sintagma) un nuovo inizio: qualcosa che chiude un’epoca, secondo una dinamica ben nota alla ricerca storico-critica. Con Roncalli finisce una stagione secolare, non perché un progetto storico abbia trovato realizzazione, non per il successo di un paziente disegno di contropotere. Questo, anzi, sarà il tema d’una propaganda denigratoria, che considera l’elezione di “Nikita Roncalli” il momento di successo di chi sa quale diabolica macchinazione.
Lo studio pignolo delle fonti dice proprio il contrario e mostra come Roncalli venga da quel mondo di cui segna l’aggiornamento. Ha vissuto la crisi antimodernista da seminarista e da prete, è diplomatico della diplomazia vaticana di Ratti e Pacelli, diventa patriarca di Venezia in una fisiologia della carriera ecclesiastica, sale al soglio pontificio in un conclave molto normale nel quale consenso e volontà sono chiamate a incontrarsi. Il punto di differenza non è allora nel progetto (che non c’è), ma in alcuni elementi fondamentali della sua spiritualità e della sua cultura che egli vive in modo prevalente, che egli lascia parlare anche rispetto ai ruoli istituzionali che ricopre. Roncalli riesce eletto al conclave per la fama di uomo prudente e pacifico che ha e che merita: ma lo stacco non si esaurisce nella scelta di un uomo sulla cui testa spicca una meritata corona di pietà; lo stacco viene perché egli ritiene di dover fare il papadando capacità e spazi di governo a un’attitudine spirituale che lo informa, che egli scolpisce (non credo si possa dire di meno) attraverso la lettura e la scrittura. Esistono, insomma, elementi della sua cultura che egli prima assume, poi coltiva e finalmente mette in opera nel suo governo: questi rendono possibile una nuova presa di posizione della chiesa davanti alla storia, e al Signore dell’una e dell’altra.
Sono questi i nervi vivi di quello che nel suo pontificato “conciliare” prenderà nome di aggiornamento: ma se uno vuol capire con che cosa Roncalli ha rotto un equilibrio istituzionale ed ecclesiastico che avrebbe ingabbiato la ricchezza del cattolicesimo in tempi per allora futuri, si trova davanti alla contraddizione fra un prete tridentino tutt’altro che a disagio nelle forme e nelle devozioni di quella stagione e tuttavia capace di selezionare e risalire verso le fonti della Tradizione meno compromessa con la chiusura confessionale, con la philautía dell’antimoderno. Questa scelta, che rappresenta sul piano storico una rottura, per Roncalli è un’obbedienza.
VI/ La vitalità
E l’ascesa di quest’obbedienza al potere costituisce per il cattolicesimo della fine degli anni Cinquanta un’iniezione di vitalità. Perché il problema del cattolicesimo della metà del XX secolo non è l’alternativa fra il rigore e il lassismo, fra la difesa della verità e la svendita della verità: questa falsa dicotomia, anzi, è quella che un modello culturale obsoleto – quello dell’intransigentismo di fine secolo e delle scuole romane – ha messo in circolazione per sostenere, naturalmente, l’appello all’immobilismo, alla sottomissione che vela la pigrizia. L’al- ternativa è quella fra la finzione e la sostanza, fra il sistema e la verità (come diceva Congar), fra la potenza organizzativa e l’affidamento alla povertà vivificante della semplicità evangelica.
Entro questa dimensione obbedienziale si colloca la scelta di Giovanni XXIII di fare il papa su un piano del magistero poco frequentato: perché il papato dell’Otto-Novecento ha scelto di enfatizzare la dimensione del magistero, ma anche di ridurne drasticamente l’estensione. Come è stato mostrato, il termine magistero, che circoscriveva l’insieme dell’insegnamento in una varietà complessa, s’è ridotto nel corso del XIX secolo a indicare l’atto dottrinale dell’autorità ecclesiastica e soprattutto quello del pontefice, custode e fonte di un magistero ordinario che dovrebbe persino riassorbire il lavoro storico-teologico e ridurlo a raccordare per via di commento un atto papale all’altro. Questa linea di tendenza – di cui ci sono autorevoli testimonianze sopravviventi – di fatto aveva un pesante effetto sulla funzione episcopale, costretta a una perpetua, emorragica ripetizione d’adesione all’insegnamento papale; così, di fatto – proprio mentre le grandi encicliche pacelliane sulla Scrittura, sulla liturgia, sulla chiesa concedevano allo sforzo rinnovatore dei movimenti almeno il merito di aver posto questioni non più eludibili – si costringevano poi i vescovi a emulare quel modello d’autorità che distendeva su aree sempre più grandi le tende della dottrina (la morale privata, la dottrina sociale ecc.) e lasciava sempre meno spazio a dimensioni vitali della vita cristiana quali la ruminazione scritturistica, la spiritualità, la preghiera.
Giovanni XXIII ha marcato con il concilio uno stacco rispetto a questo scenario perché il consenso che s’è raccolto attorno alla sua persona non è stato interamente determinato da tali processi, ma s’è nondimeno basato sul riconoscimento di un ruolo – quello di maestro spirituale – nel quale i vescovi di Roma avevano disimparato a riconoscersi: e ha preteso di dare al concilio questo orizzonte rinnovatore che era quello che aveva segnato la sostanza della professione cristiana e della funzione di un vescovo, rimasto nonostante tutto un cristiano.
Alberto Melloni
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