In questo articolo comparso sul numero di Ottobre di Micromega si fa un'analisi critica di alcune tendenze post conciliari che hanno attraversato la Chiesa italiana.
Pur essendo l'articolista su posizioni di forte dissenso e pur non trovando la sua analisi condivisibile,crediamo che possa essere uno spunto per una riflessione sulle vicende ecclesiali nostrane.
Un grande dito indicatore
Memini,
oh sì che mi ricordo. Erano gli anni del post-Concilio, Dio non
parlava più in latino e io respiravo a pieni polmoni. Il Vangelo,
ai miei occhi di adolescente in fervore, appariva dinamite,non oppio.
Nelle pagine della Bibbia trovavo un Dio che esalta la dignità
dell'uomo, poiché «l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e
di onore lo hai coronato» (Salmo 8). Nei libri di don Milani e nelle
poesie di padre Turoldo capivo che la speranza dell'aldilà non
allontana dal mondo, anzi dà motivazioni forti per i fronti di
lotta, le convergenze etiche, le battaglie per l'alleggerimento della
terra. Mi sentivo parte di un popolo, non di una struttura
ecclesiastico-religiosa.
Nei nostri incontri parlavamo di rispetto della libertà religiosa, dei semi di verità presenti nelle religioni non cristiane, di dialogo con gli atei. Nelle discussioni accese con i non credenti facevo riferimento alla vita dei primi cristiani: pescatori, gente ordinaria, sempre braccati dalle grandi istituzioni religiose e politiche. E ancora di più mi piaceva citare un libretto dell'età appena posteriore agli Apostoli che contiene una lettera di autore ignoto a uno non meno sconosciuto, Diogneto: «Abitando nelle città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l'abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, i cristiani mostrano il carattere mirabile e paradossale del loro modo di vivere». Vivevo queste dimensioni in parrocchia ma le imparavo principalmente nell'Azione cattolica italiana. Era l'Ac del nuovo Statuto del 1969, voluto
Nei nostri incontri parlavamo di rispetto della libertà religiosa, dei semi di verità presenti nelle religioni non cristiane, di dialogo con gli atei. Nelle discussioni accese con i non credenti facevo riferimento alla vita dei primi cristiani: pescatori, gente ordinaria, sempre braccati dalle grandi istituzioni religiose e politiche. E ancora di più mi piaceva citare un libretto dell'età appena posteriore agli Apostoli che contiene una lettera di autore ignoto a uno non meno sconosciuto, Diogneto: «Abitando nelle città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l'abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, i cristiani mostrano il carattere mirabile e paradossale del loro modo di vivere». Vivevo queste dimensioni in parrocchia ma le imparavo principalmente nell'Azione cattolica italiana. Era l'Ac del nuovo Statuto del 1969, voluto
da
papa Montini e realizzato da Vittorio Bachelet e monsignor Franco
Costa, che era l'assistente nazionale (cioè il vescovo che la
gerarchia ecclesiastica pone come guida spirituale
dell'associazione). I documenti associativi, a dire il vero, mi
sembravano inutilmente complicati e mi mettevano noia, ma l'atmosfera
generale degli incontri e delle settimane formative mi convinceva e
mi ha impregnato in maniera sostanziale. Ho assorbito la linea,
ufficialmente denominata «scelta religiosa» e associata alla
«cultura della mediazione», ma che per me era molto più
semplicemente una «linea aperta» neanche così difficile da
spiegare. Il cristiano segue Gesù Cristo e Gesù Cristo è più
grande della Chiesa. Lo spirito del Risorto è all'opera in ogni
angolo del mondo.
Abita l'esistenza umana in tutte le sue forme, anche nei tradimenti e
nelle distorsioni che l'attraversano, spingendola verso il
compimento, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). La
Chiesa è al servizio di questa bella notizia. A differenza delle
organizzazioni di questo mondo, si dimentica di sé. Non calcola
niente, non ammucchia niente, non edifica niente. Si preoccupa
unicamente di abbattere idoli e preparare strade, alla maniera di
Giovanni Battista. Nella crocifissione del grande pittore tedesco
Grunewald, il Battista è raffigurato con una vistosa anomalia nella
mano: un dito enorme che indica Cristo e accanto la scritta «Lui
deve crescere, io sminuire». In quel tempo credevo in una «comunità
alternativa» senz'altra ambizione che quella di essere un grande
dito indicatore.
Chi
non è con noi, è contro di noi
Quest'impostazione
ariosa - l'ho capito meglio con il passare del tempo - era assai
pericolosa.
Metteva
in scacco la visione di una Chiesa chiusa in un'arrogante pretesa di
perfezione, una specie di arca di Noè, ben impeciata all'interno e
all'esterno, impermeabile, che custodisce dentro di sé l'acqua buona
del battesimo e non lascia penetrare le acque contaminate del mondo.
Per questo in quegli anni agitati molte controproposte vennero alla
luce e, in alcuni casi, presero la forma del «movimento».
A
Milano, dove spesso viene anticipato quanto viene poi esteso in tutta
Italia, già negli anni Cinquanta sorge Comunione e liberazione. Il
fondatore, don Luigi Giussani, detto il Gius, da assistente di
Gioventù studentesca - Gs, il ramo studentesco dell'Ac - avverte
prima di altri lo sfaldamento del tessuto cattolico e si domanda come
fare per ridare concretezza all'esperienza cristiana. Dopo il
Concilio e la contestazione del Sessantotto, che provocò grandi
abbandoni anche nelle fila di Gs, è costretto a distaccarsi
completamente dall'Ac e a far nascere il suo movimento.
Dico
«costretto» perché il Gius della prima ora, più che fare un
soggetto autonomo, ha in mente di fare l'Ac meglio dell'Ac. Continua
infatti a ragionare secondo lo schema tradizionale della Chiesa
ambrosiana preconciliare. La presenza di Cristo risorto è nella
concretezza di un corpo ecclesiale, quindi è solo «il metodo della
compagnia» che permette di far toccare il Cristo e di appartenere a
Lui. Se l'Ac tradisce la sua storia, se indebolisce l'identità
cattolica per eccesso di modernismo, bisogna ripresentare il fascino
dell'Avvenimento all'interno di una chiara Appartenenza. Così la
pensa il Gius, così la pensa in fondo anche il suo superiore,
l'arcivescovo di Milano, il cardinal Giovanni Colombo, che però di
fronte alla radicalizzazione operata da Cl di alcuni elementi pur
secondari (tipo la coeducazione tra maschi e femmine e la prevalenza
data alla presenza negli ambienti piuttosto che alla vita delle
parrocchie), sancisce nel novembre 1971 la definitiva separazione tra
Ac e Cl. Lo sganciamento dalla pastorale ordinaria diocesana porta Cl
ad accentuare ulteriormente la dimensione della «compagnia».
Appartenervi assume un profilo esistenziale molto marcato, coinvolge
affetti, casa, lavoro, politica. I ciellini si sposano tra ciellini,
lavorano coi ciellini,
e in politica votano i ciellini (di lì a poco, nel 1975, nasce
ufficialmente il Movimento popolare,
guidato dal barbuto Roberto Formigoni). Creano un mondo
autosufficiente, in cui è facile entrare e difficile uscire, che
garantisce ai suoi abitanti di essere nel vero, offrendo un apparato
concettuale ben definito da cui attingere risposte ai quesiti della
vita e un'organizzazione che accompagna dalla culla alla bara. È
per questo impianto, voluto dal fondatore, e non tanto per lo
stile
bruto di molti dei suoi capi, che il movimento si è meritato il
giudizio di «integralismo». Io preferisco parlare più
semplicemente di «linea chiusa», e su questa linea accomuno anche
altri movimenti che in quegli anni si diffondono velocemente
dimostrando indubbie capacità di aggregazione: l'Opus Dei dello
spagnolo Josemaría Escrivà de Balaguer, i Cursillos de Cristanidad
dell'altro spagnolo Eduardo Bonnin, i Legionari di Cristo del
messicano Marcial Maciel Degollado, i Focolarini di Chiara Lubich, il
Rinnovamento dello spirito guidato in Italia da Salvatore Martinez,
il Cammino neocatecumenale di Kiko Arguello e di Carmen Hernandez, la
Comunità di Sant'Egidio di Andrea Riccardi e don Vincenzo Paglia
(«la Cl di Roma e di centro-sinistra»). Realtà assai diverse,
certo, ma con la medesima esaltazione del carisma, del linguaggio,
delle idee del leader, con la medesima insistenza sul «noi» e con
la stessa tendenza a produrre una drastica contrazione della libertà
di movimento dello Spirito. Chi non è con noi, è contro noi.
Wojtyla e i movimenti
Wojtyla e i movimenti
La
«linea chiusa» non poteva non incontrare il plauso del nuovo
pontefice, Karol Wojtyla, il robusto «montanaro di Wadowice» (così
lo chiama il cardinal Wyszynski, primate di Polonia, alla Radio
Vaticana). Anche un papa ha le sue simpatie e antipatie. E la
simpatia di Wojtyla verso i movimenti è intensa. Li sente funzionali
al suo disegno. Wojtyla, fortemente polacco, vuole una Chiesa
fortemente compatta al suo interno, che si presenti al mondo esterno
con il volto dell'efficienza e dell'unità. Anche sui laici ha idee
chiare. Li ama, basta che siano i laici giusti, in tutto dipendenti
dalla gerarchia, disponibili a essere una longa manus del clero in
economia e politica. Tra imovimenti preferiti Cl è al secondo posto,
appena una lineetta sotto l'Opus Dei. Il feeling tra il papa e Cl
scatta subito. Il Gius viene ricevuto in udienza privata il 18
gennaio 1979, e all'uscita scrive una lettera ai suoi dal titolo
«Serviamo Cristo in questo grande uomo». L'anno successivo parte la
campagna a sostegno a Walesa e Solidarnosc. Negli incontri del
movimento si canta a squarciagola l'inno alla Madonna nera di
Czestochowa. L'anno cruciale è, a tutti gli effetti, il 1982: 1'11
febbraio viene reso pubblico il decreto di riconoscimento pontificio
della Fraternità di Comunione e liberazione; il 29 agosto Giovanni
Paolo II visita il Meeting di Rimini e manda alle stelle l'entusiasmo
del popolo ciellino. Sempre nel 1982 l'Opus Dei ottiene lo status di
prelatura personale del papa: al riparo del Vaticano, ha le mani
libere dalle Chiese locali. In quel momento tutto è movimento e
niente si fa senza i movimenti. Sono loro la «nuova primavera»
della Chiesa. In un battibaleno raggiungono l'influenza e il potere
che ricoprivano ordini religiosi secolari, i gesuiti, i francescani,
i domenicani. A ciascuno tocca un compito: all'Opus vengo affidati
l'alta finanza e la supervisione nella nomina dei vescovi, ai
Focolarini il culto mariano e la spiritualità dell'unità, alla
Comunità di Sant'Egidio pace ed ecumenismo, ai Legionari di Cristo
la formazione del clero (mi domando: ma in Vaticano sapevano già
della pedofilia del fondatore?). A Cl tocca di intervenire a piedi
uniti nella situazione italiana e lo fa da par suo, con il solito
garbo. Nell'83 mette i suoi uomini nel quotidiano Avvenire: alla
direzione va il reggiano Gian Guido Folloni, alla guida della società
editoriale il brianzolo Fiorenzo Tagliabue. Tramite il settimanale Il
Sabato (dove scrivono penne delicate
come quelle di Alessandro Sallusti e Renato Farina, alias Betulla,
mentre Maurizio Lupi è l'addetto
al marketing), critica sistematicamente l'Azione cattolica, per il
suo protestantesimo, e la presidenza della Cei, per come sta
preparando il II Convegno della Chiesa italiana a Loreto. Quando il
convegno si svolge, nell'aprile 1985, la «linea aperta» dei
cardinali Ballestrero – Martini – Cè Pappalardo non trova
l'assenso del papa, che insiste nel suo discorso sulla necessità di
avere anche in Italia una «Chiesa forza sociale». Ed è il papa in
prima persona, l'anno dopo, a cambiare il vertice della Cei,
affidando la presidenza al suo vicario di Roma, il cardinal Poletti,
e la segreteria all'astro nascente, monsignor Camillo Ruini. Cl gode
soddisfatta.
Morte
in Ac
Però
l'Ac continua a resistere. L'assemblea nazionale dell'aprile 1986,
nonostante le polemiche interne fomentate da Dino Boffo - il
dirigente associativo che si è via via accreditato in Vaticano come
l'uomo giusto per il nuovo corso wojtyliano - e uno strampalato
intervento del cardinal Poletti volto a bloccare il documento finale,
conferma a stragrande maggioranza la prosecuzione della «linea
aperta». Il presidente uscente, Alberto Monticone, saluta con la
lettura dei capitoli 16 e 17 della Gaudium et spes, la Costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Concilio Vaticano
II, in cui si parla della centralità della coscienza umana e della
libertà.L'assemblea risponde con un lungo e affettuoso applauso di 7
minuti e 53 secondi. L'esito
felice dell'assemblea infastidisce Ruini a tal punto che decide di
procedere con il cambio dell'assistente generale. Su suggerimento
dell'ineffabile Boffo, che è diventato nel frattempo il suo più
intimo consigliere, il 14 marzo 1987 spedisce in punizione a Viterbo,
la diocesi dei papi, monsignor Fiorino Tagliaferri e mette al suo
posto monsignor Antonio Bianchin, per vent'anni assistente dell'Ac di
Pisa. A lui affida il compito di riportare ordine e disciplina. «Io
non sarei qui se voi non aveste disobbedito al papa», si lamenta
spesso nei colloqui personali il nuovo assistente,
che
non nasconde neanche la sua insofferenza per gli ambienti romani.
Monsignor Bianchin si logora in una spola continua tra la segretaria
della Cei, dove prende gli ordini, e gli uffici dell'associazione,
dove deve eseguirli. In due anni si gonfia di venti chili. Vive male,
malissimo l'Assemblea nazionale Ac della primavera del 1989, che
continua a «disobbedire», riconfermando la fiducia a Raffaele
Cananzi, il successore di Monticone alla guida dell'associazione.
L'estate seguente è un'altra estate da dimenticare, rovinata dai
veti di Ruini sulla composizione della nuova presidenza. Monsignor
Bianchin non regge questa situazione stressante, che la parte sana
del suo inconscio deve avvertire come assurda e inaccettabile. Alla
fine di settembre, mentre sta iniziando una riunione, viene colpito
da un grave ictus. Morirà 15 mesi dopo, il 22 gennaio 1991. Nessuno
siricorderà più di lui.
Ruine
ruiniane
Crollato
Bianchin, tocca a Ruini assumere per qualche mese l'interim di
assistente generale
dell'Azione
cattolica. Prima di nominare quale nuovo, affidabile assistente
monsignor Salvatore De Giorgi (in seguito cardinale di Palermo), dà
le consegne al Consiglio nazionale: obbedite ai preti (cioè a me),
non fate politica (ovvero lasciatela a me), non litigate coi
movimenti (quindi fidatevi di me che so come trattarli).
L'associazione, spossata da troppi annidi pressione, neanche ce la fa
a discutere e formalmente s'adegua. L'anno successivo, il 1991,
Ruini diventa presidente della Cei e cardinale vicario di Roma e da
quel momento prende definitivamente in mano le redini della Chiesa
italiana, imponendo la sua leadership centralizzata che parla per
tutti e isola i non allineati. Per più di quindici anni la Chiesa è
«lui», sempre e soltanto «lui». Il controllo sull'Ac diviene
totale. Dalla sua scrivania passano per il visto i programmi dei
convegni, dei seminari, perfino gli articoli da pubblicare sulla
stampa associativa. Non c'è intervento che possa esser fatto senza
la sua autorizzazione preventiva. A un certo punto comanda all'Ac la
riconciliazione ufficiale con Cl. La presidente Paola Bignardi è
«costretta» a salire sul palco del Meeting di Rimini per la stretta
di mano ufficiale con uno dei capi storici del movimento, Giancarlo
Cesana. Comanda pure di chiamare l'ex fascista Gianfranco Fini a
parlare sulla «funzione sociale degli oratori»! Se l'Ac è
mortificata, anche Cl e gli altri movimenti non vengono più di
tanto valorizzati. E dire che loro stanno dalla parte giusta, quella
dell'identità, della presenza, dell'obbedienza. Il cardinale
preferisce inventarsi delle sigle che dipendano direttamente da lui
e che a un suo cenno intervengano nel dibattito pubblico nazionale:
Forum delle famiglie, Retinopera, Comitato Scienza &Vita
(quest'ultimo fondamentale per la campagna astensionista sul
referendum sulla procreazione assistita del 2005). Alla guida di
Avvenire e della televisione Sat 2000 blinda il fidatissimo Boffo.
Si organizza da sé la creatura prediletta, il «Progetto culturale»,
che lancia nel convegno ecclesiale di Palermo per il risveglio del
cattolicesimo italiano. Quando ha bisogno di sponsor non cerca la
Compagnia delle Opere, ma si affida per anni alle capaci mani di
Gianpiero Fiorani, l'amministratore delegato della Banca Popolare di
Lodi, un vero cattolico modello, un granitico lottatore nel campo dei
valori. In politica preferisce interloquire con Silvio, il libertino,
piuttosto che con Romano, il cattolico adulto. E quando pensa al
futuro non pensa a Roberto Formigoni, il governatore della Lombardia,
ma ad Antonio Fazio, il governatore della Banca d'Italia. Quando nel
2005 Fazio è coinvolto nelle inchieste bancarie sui «furbetti del
quartierino», Ruini non fa un plissè, e subito riparte con le
telefonate, candidando alle politiche del 2006 alcuni suoi fiduciari
nei partiti centristi dei due schieramenti (Luigi Bobba, già
presidente delle Acli, e Paola Binetti, opusdeista presidente di
Scienza&Vita, nella Margherita, Luisa Santolini
del
Forum delle associazioni familiari e Luca Marconi di Rinnovamento
dello spirito nell'Udc).
Quello
che ha sempre colpito di Ruini, più che la contiguità con i poteri
di tutti i tipi, è stata la disinvoltura nel far finta di niente.
Ogni volta che un bubbone esplodeva e gli «amici» finivano nei
guai, «lui» voltava pagina con freddezza, come era già successo
con il crollo della Dc, senza mai fare i conti con la debolezza
culturale prima ancora che spirituale ed etica che lo aveva portato
adare credito a personaggi senza scrupoli e ad affidare i progetti
più ambiziosi a gente modesta. Al fine di combattere il relativismo
con alleanze di ogni tipo, «lui», la Chiesa, l'ha ampiamente
relativizzata. Le ha fatto perdere autorevolezza. Ha contributo a
svuotarla. Quando nel 2007 lascia la
Cei per sopraggiunti limiti di età, l'Ac è esausta, Cl si ritrova
priva di spinta spirituale, compromessa com'è negli affari della
Compagnia delle Opere e nella politica berlusconiana, e gli altri
movimenti vivacchiano: si fanno notare nei giorni di gala, ma
scompaiano alla vista nei giorni ordinari. A livello centrale si è
fatta tabula rasa dei cattolici conciliari, circolano solo alcuni neoclericali
che fanno da cassa di risonanza delle decisioni prese nelle alte
sfere. Alla base, nelle parrocchie, rimangono preti in crisi di
identità e tanti vecchi meditabondi sulla morte vicina. Le donne
quarantenni sono scomparse, i giovani cercano fremiti altrove. E
chissà quali altri dati ha in mano il papa. Dati che lo devono
molto, molto preoccupare. Solo così si spiega la sua mossa senza
precedenti di spostare il patriarca di Venezia a Milano.
Scola
a Milano Per un vescovo cambiare diocesi è come cambiare sposa. Può
chiederlo solo il papa in persona. E se il papa lo chiede, deve
esserci qualcosa di grave e di urgente. Il 28 giugno del 2011 il
patriarca Angelo Scola viene nominato 152° arcivescovo di Milano.
Deve lasciare Venezia, le gondole, il titolo di patriarca: prima di
lui nel Novecento era toccato ad altri tre ma solo per diventare papa
(Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I). Lui, invece, dopo 9 anni
di Serenissima viene spedito a Milano, la grande Ninive. Nella sua
prima lettera alla diocesi par di leggere più l'ansia per il nuovo
incarico che l'entusiasmo di tornare a casa (è nato nel 1941 a
Malgrate, piccolo paese alle porte di Lecco, sul ramo del lago di
Como che volge a mezzogiorno). Il papa, che lo conosce da 40
anni(primo incontro a Regensburg nel 1971), punta molto su lui. Forse
lo vuole anche suo successore sul soglio di Pietro, ma intanto gli
chiede grandi cose dalla cattedra di Ambrogio e di Carlo. Si aspetta
che la diocesi di Milano riprenda la sua funzione illuminante per
l'intera cristianità. Se il
cattolicesimo
non riparte nella diocesi più importante d' Italia, dove mai potrà
ripartire? Ma Scola è preoccupato, forse anche un po' depresso.
Ciellino della prima ora, e proprio per questo allontanato dal
seminario diocesano e ordinato sacerdote nella diocesi di Teramo, sa
che l'attendono duemila preti non ciellini e anche una Cl assai
diversa da quella dei suoi tempi. Quando fa l'ingresso solenne in
duomo il 25 settembre 2011, neanche lui può immaginare il bailamme
dei mesi successivi: la tempesta
giudiziaria in Regione Lombardia e l'uscita dalle segrete stanze
vaticane della lettera scritta di don Julan Carrón, il successore
del Gius, al nunzio apostolico monsignor Giuseppe Bertello. Da tempo
nubi oscure avvolgevano la sommità del Pirellone, ma è dall'ottobre
scorso che son partiti fulmini e saette direttamente verso
Formigoni. Una serie di inchieste stanno verificando l'esistenza
di malaffare nel settore della sanità, alcuni indagati sono finiti
in carcere, edue di questi sono intimi del governatore. Uno è
Antonio Simone. Leader degli universitari ciellini nella Cattolica
degli anni Settanta, enfant prodige del Movimento popolare eletto nel
consiglio regionale lombardo a 26 anni nel 1980, assessore alla
Sanità fino allo scoppio di Tangentopoli, arrestato e poi assolto,
ha dismesso i panni del politico per occuparsi di affari ad ampio
raggio. Il giorno dopo il suo arresto, la moglie Carla Vites scrive
una lettera rovente sul Corriere della Sera accusando «Robertino»
di aver tradito il suo migliore amico e di aver perso la testa per il
lusso, di divertirsi (e tanto!) in un turbinio di vacanze e di serate
a 5 stelle. Chi fa divertire Robertino è l'altro, ovvero Pierangelo
Daccò. Lodigiano, faccendiere, socio di affari di Simone, ha una
grande influenza presso l'assessorato alla Sanità della regione
Lombardia - guidato anch'esso da ciellini. Daccò risulta
l'organizzatore a proprie spese delle lussuose vacanze del
governatore. Il 14 giugno scorso la procura di Milano ha iscritto
anche «Robertino» nel registro degli indagati: gli viene contestato
il reato di corruzione, con l'aggravante di reati transnazionali.
Chissà come andrà a finire l'inchiesta giudiziaria. Intanto la
buriana ha messo in crisi non solo gli equilibri politici della
regione, ma anche la credibilità di Cl. Su Repubblica (1/5/2012),
don Carrónammette la necessità di fare autocritica (però alla sua
lettera, almeno ufficialmente, non segue nessun altro intervento). Ma
è soprattutto Scola, educatore di Formigoni al tempo del liceo, che
si sente in dovere di precisare i suoi rapporti col movimento. Lo fa
in tre occasioni. La prima, durante un'intervista del 23 dicembre
2011 al Corriere della Sera: «Credo che Cl sia un fenomeno educativo
ecclesiale formidabile» e non deve essere mischiata con la politica:
«Gli uomini che si sono giocati in politica portano lì la loro
faccia e su questa base sono stati e saranno valutati dai cittadini».
La seconda, durante il tradizionale incontro con la stampa il 24
gennaio 2012, festa di san Francesco di Sales, patrono dei
giornalisti: «Sono vent'anni anni che non partecipo più alle
riunioni di Comunione e liberazione, e in Cl non conosco nessuno che
abbia meno di 60 anni... Scola e Formigoni da vent'anni si sono visti
sì e no una volta l'anno a Natale. Possibile che uno si debba
portare addosso non uno ma due peccati originali?». La terza, a fine
aprile, a margine di un incontro della Fondazione Cariplo: «Cosa ne
so io di Comunione e liberazione? Non parlo di queste cose, né di
Formigoni, né di altro. Io sono vescovo da 21 anni e mi occupo delle
Chiese sante di Dio che mi sono state affidate».
Mentre Scola dichiara, arriva la bomba, ovvero la pubblicazione nel volume di Nuzzi, Sua santità, le carte segrete di Benedetto XVI, della lettera inviata da don Juliàn Carrón, all'allora nunzio apostolico monsignor Bertello, nel corso delle consuete consultazioni per la successione di Tettamanzi. La lettera esprime un durissimo giudizio sugli ultimi due episcopati di Martini e di Tettamanzi, «responsabili della rottura della tradizione ambrosiana caratterizzata da una profonda
Mentre Scola dichiara, arriva la bomba, ovvero la pubblicazione nel volume di Nuzzi, Sua santità, le carte segrete di Benedetto XVI, della lettera inviata da don Juliàn Carrón, all'allora nunzio apostolico monsignor Bertello, nel corso delle consuete consultazioni per la successione di Tettamanzi. La lettera esprime un durissimo giudizio sugli ultimi due episcopati di Martini e di Tettamanzi, «responsabili della rottura della tradizione ambrosiana caratterizzata da una profonda
unità
tra fede e vita e dall'annunzio di Cristo "tutto per noi"
(sant'Ambrogio) e come presenza e
risposta
ragionevole al dramma dell'esistenza umana». Critica
«l'unilateralità di interventi sulla giustizia sociale, a scapito
di altri temi fondamentali della dottrina sociale, e un certo sottile
ma sistematico "neocollateralismo", soprattutto della
curia, verso una sola parte politica (il centro-sinistra)
trascurando, se non avversando, i tentativi di cattolici impegnati in
politica, anche con altissime responsabilità nel governo locale, in
altri schieramenti». Considera grave la fragilità dell'apporto
cristiano alla cultura, costretto in un'«autoriduzione
dell'originalità del cristianesimo» su posizioni relativistiche o
problematiche. Tutti gli elementi convergono nell'indicazione finale:«Per
queste ragioni l'unica candidatura che mi sento in coscienza di
presentare all'attenzione del Santo Padre è quella dell'attuale
patriarca di Venezia, cardinal Angelo Scola». La lettera, che si
potrebbe anche intitolare tout court «Cl vuole Milano», c'est plus
facile, suscita diffuse reazioni in preti e laici tanto che Scola,
1'8 giugno, durante la seduta del consiglio presbiterale diocesano, è
costretto ad affrontare di petto la questione: «Quello che ha
scritto don Carrón è il suo pensiero.
Quel
che io penso dell'eredità dei miei predecessori risulta con
chiarezza anche soltanto rifacendomi a quanto detto davanti al papa
(... lungo e ricco ministero... sagace azione ecclesiale...)». E
conclude incaricando il suo vicario generale di incontrare a nome suo
i due responsabili diocesani della Fraternità di Cl e lo stesso don
Carrón, «per chiedere i chiarimenti dovuti e perseguire il processo
di pluriformità nell'unità proprio della vita ecclesiale».
L'Azione
di Comunione
Questa
posizione netta è stata colta da molti come il definitivo
sganciamento del cardinale da Cl e la riaffermazione di una
continuità nella guida della diocesi. A ulteriore conferma di questa
lettura ci sarebbe la prima tornata di nomine: compaiono diverse
figure che sono state in passato stretti collaboratori di Martini e
Tettamanzi. In cuor mio ho invece la sensazione che le cose stiano andando
diversamente. Credo che lo sganciamento dall'organizzazione di Cl e
le nomine continuiste rendano più libero Scola di effettuare la
virata per cui è stato mandato a Milano. Benedetto XVI non ha
aspettato la lettera di Carrón per farsi un giudizio sulla
condizione del cristianesimo ambrosianoe per prendere la sua
decisione sul nuovo arcivescovo. È il papa in prima persona che
vuole una ripartenza
in un senso ciellino, cioè con una chiara ripresentazione
dell'Avvenimento e con un'altrettanto
chiara insistenza sull'Appartenenza (le maiuscole sono d'obbligo). A
tal fine non è indispensabile che il movimento sia in primo piano,
anzi in una fase come questa è meglio se stadefilato, a purgare
l'eccessiva mondanizzazione. Indispensabile è piuttosto l'utilizzo
del metodotanto caro al Gius e che il Gius stesso dichiarava di aver
imparato dalla scuola teologica ambrosiana (la cosiddetta «scuola di
Venegono»). Sul persistere del legame di Scola con l'impostazione
imparata dal Gius non credo possano sorgere dubbi. Al Gius Scola
attribuisce l'inizio della suapersonale maturità (così scrive in un
volumetto dedicato al maestro Un pensiero sorgivo, Marietti1820,
Genova-Milano 2004). A lui, formidabile educatore, continua a
guardare come riferimento sicuro (così si è espresso nel giorno
dell'ingresso in diocesi).
Scola
dovrà certo impegnarsi in un'opera di convinzione del clero. Che
però, punto primo, è un clero che ha un forte senso
dell'istituzione e non osa mettersi contro i desiderata del vescovo e
del papa (Ubi Petrus, ibi Ecclesia Mediolanensis). E che poi, punto
secondo, nella sua maggioranza non dovrebbe far fatica a ritrovarsi
su una forte linea ecclesiocentrica purché non veicolata da Cl,
quindi scevra dalle sfibranti polemiche dei decenni scorsi sul
rapporto tra parrocchie, associazioni e movimenti. Aumenta infatti il
numero di ecclesiastici che pensano necessario dare a un mondo
segnato dalla paura quel senso di sicurezza che solo una religione
compatta e organizzata sa trasmettere. Potrà giovare al cardinale il
riutilizzo dell'Azione cattolica come organizzazione laicale di
riferimento: lui stesso ci deve aver già pensato, un cenno l'ha
fatto al consiglio pastorale diocesano del febbraio scorso».Voglio
un'Azione cattolica che passi da 8 mila aderenti a 80 mila.
Non
è una battuta, è una prospettiva su cui chiedo di lavorare». Scola
sa quanto l'Ac di oggi sia plasmabile a suo piacimento. E forse in
cuor suo sogna di andare oltre, di sanare, quarant'anni dopo, la
ferita della scissione fra i due rami dell'associazionismo ambrosiano
riunificandoli in un unico soggetto. La sigla potrebbe rimanere la
stessa, solo il nome cambierebbe: Azione di Comunione. Metà per uno,
non fa male a nessuno.
Al
vento
Se
la diocesi di Ambrogio e Carlo, che sempre anticipa, prevede il
rinforzo delle mura del tempio e il ricompattamento di associazioni e
movimenti — si tornerà anche a cantare l'inno ufficiale? Siamo
arditi della fede/ siamo araldi della croce/ siam un esercito
all'altar — dovrei definitivamente rassegnarmi. Invece il ricordo
di quegli anni giovanili continua a non darmi pace. Sembrava
possibile un cambiamento radicale della mentalità e delle strutture
della Chiesa: porte aperte, avventura evangelica, «Dio sotto la
tenda». Adesso invece molte porte sono state cautamente accostate,
altre violentemente chiuse. E a me manca il fiato. Vivo ripetute
crisi di claustrofobia. Non credo di essere il solo. Credo che siano
in tanti quelli che si ritrovano spaesati, perfino traditi, e che
quando sentono parlare di Chiesa cattolica avvertono un nodo alla
gola. Chi soffre di claustrofobia è costretto a uscire. A partire in
viaggio. Un viaggio tutto interiore, alla ricerca di quella brezza
sottile che abita nell'intimo dei volti umani e nella forma delle
cose. Se Dio c'è, assomiglia molto all'aria che respiriamo:
indispensabile, concreta, anche se inafferrabile e praticamente
indescrivibile. Di più, al venticello di primavera che risveglia i
sensi, trasmette fecondità, trasporta il polline da un fiore
all'altro. Credo che nel prossimo periodo aumenterà il numero di
cristiani che camminerà in forme extra-vaganti lungo percorsi di
vento. Ah, il vento! È iconoclasta, è purificazione da tutte le
immagini di Dio con le quali cerchiamo spesso di appropriarci del suo
mistero, è liberazione anche da tutte quelle immagini di noi che
finiscono per essere stancanti o ripetitive, anche se per un breve
tempo possono essere stati gratificanti. Il vento spinge fuori dalle
gabbie, sempre più in là. Spinge fino alla compassione, cioè a
quella forma particolare di amore che nasce dall'impotenza. Un amore
diverso da quello del benefattore che fa piovere benedizioni
dall'alto o da quello spettacolare che inventa miracoli. È il
cum-pati, la comunione tra coloro che soffrono la stessa fame e la
stessa sete. È la mano sulla spalla da parte di chi è come te e con
te. Il vento, in ultima istanza, è il ritorno all'origine, al
testamento di Giovanni, questa volta l'evangelista. Ormai molto
vecchio e venerato, i suoi discepoli gli chiedevano di riassumere in
una parola il messaggio del Signore. E lui rispondeva: «Figlioli
miei, amatevi, amatevi, amatevi». Se questo è il quid del
cristianesimo, oggi siamo in basso, molto in basso. Ma è pur vero
che il mondo è solo all'inizio e quindi vasto il programma di
rendere vivo ciò che non lo è ancora. In questi tempi cupi è una
bellissima notizia da mozzare il fiato.
(Giovanni Colombo)
(Giovanni Colombo)
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