La
sentinella interpellata
Lazzati
è sempre stato - ma in particolare negli ultimi anni della sua vita
- un vigilante, una scolta, una sentinella: che anche nel buio della
notte, quando sulla sua anima appassionata di grande amore per la
comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con
speranza indefettibile la navigazione nel mare buio e livido della
società italiana.
Perciò
mi pare che per lui e per la sua devota e ansiosa scrutazione possano
valere le parole di un breve, e un po’ enigmatico, oracolo del
libro di Isaia: inserito tra le profezie sulle Nazioni pagane [in
questo caso, come formalmente precisa la versione dei LXX,
sull’Idumea oppressa dagli Assiri].
Mi
gridano da Seir:
Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?
La sentinella risponde:
Viene il mattino, e poi anche la notte
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!
[Isaia 21, 11-12]
Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?
La sentinella risponde:
Viene il mattino, e poi anche la notte
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!
[Isaia 21, 11-12]
Nessun
rimpianto per il giorno precedente
Una
prima riflessione si può fare su questo testo. Non c’è nessun
cenno al giorno precedente:
ai suoi pesi, alle sue prove, ai suoi tormenti e alle sue speranze
[se ce ne potevano essere]. Chi interpella la sentinella, e la
sentinella stessa, non si ripiega a considerare - tantomeno a
rimpiangere - il giorno prima.
Certo
Lazzati non si faceva nessuna illusione, nei suoi ultimi anni, su ciò
che si stava preparando per la cristianità italiana. Chi ha potuto
avvicinarlo allora, avvertiva che la sua coscienza esprimeva un
giudizio duro, lucido, su ciò che stava maturando per
il nostro Paese, appunto quello a cui stiamo assistendo ora dopo le
ultime elezioni: non tanto lo sbandamento elettorale dei cattolici,
ma le sue cause profonde, oltre gli scandali finanziari e oltre le
collusioni tra mafia e potere politico, soprattutto l’incapacità
di “pensare politicamente”, la mancanza di grandi punti di
riferimento e l’esaurimento intrinseco di tutta una cultura
politica e di un’etica conseguente.
Perciò
Lazzati, se posto di fronte agli ultimissimi accadimenti, non sarebbe
stupito né si attarderebbe in vani rammarichi per l’improvvisa
caduta dell’espressione politica del cattolicesimo italiano. Io
sono sicuro che egli da anni la vedeva per scontata e quasi fatale:
pur essendo ben convinto - e con quale vigore! - della validità in
sé del patrimonio ereditato dal passato meno recente [anteriore alla
prima guerra mondiale e da quello prefascista] e dal passato più
recente [soprattutto dei primi lustri del secondo dopoguerra]. Tale
eredità poteva annoverare una elaborazione culturale, forse modesta,
ma vivace; un’opera di formazione vasta e costante, di quadri e di
masse; sforzi organizzativi appassionati e perseveranti; e
soprattutto tanta fede e tanta speranza e tanti sacrifici di persone
umili e realmente disinteressate; e infine, alcuni momenti forti di
mediazione civile e politica riconosciuta da molti come valida.
A
questa eredità si ricollegava Lazzati e l’ha anche gestita ed
arricchita di suo. Ma non credo che oggi, dopo tanta dissipazione che
ne è stata fatta per leggerezza e per disonestà diffusa, egli si
attarderebbe a insistervi o per lo meno non direbbe che il problema
si riduce principalmente a rivendicare con energia il patrimonio
passato e ad “avere l’orgoglio delle proprie ragioni”.
Ragioni
appunto del passato: cioè di ieri, o meglio di ieri l’altro. Non
abbiamo ancora abbastanza considerato - e direi proprio che non ce ne
vogliamo persuadere - quant’acqua sia passata dal 1989: in cinque
anni è come se ne fosse passata tanta da sommergere non un’isola,
ma un intero continente [l’Europa: e l’Europa soltanto?].
Che
non ne siamo ancora persuasi, non siamo solo noi cattolici [o lo
siamo solo nelle affermazioni generiche, e poi non ne deduciamo quasi
nulla quando si tratta di operare] ma lo sono anche i laici, e in
particolare le sinistre nostrane: e persino queste nuove destre, che
hanno vinto le elezioni sulla scommessa del nuovo, ma che per ora si
mostrano ancora attaccate a metodi vecchi, a soluzioni archeologiche,
e persino quando vorrebbero innovare [come fa la Lega] fanno proposte
capaci di dare voce alla protesta degli interessi di oggi, e non
capaci di interpretare il vero movimento della storia, italiana ed
europea.
La
notte va riconosciuta per notte
Dunque,
a parer mio, Lazzati oggi non sarebbe un saggio laudator temporis
acti, cioè non si attarderebbe a rimpiangere il passato di ieri o di
ieri l’altro, o a riaccreditarlo di fronte agli immemori, ma si
immergerebbe consapevolmente nella notte: direbbe con semplicità e
forza che la notte è notte, ma sempre con l’anima della sentinella
che [secondo un altro testo celebre della Scrittura, il De profundis]
è tutta verso l’aurora:
L’anima
mia è verso il Signore
più che la sentinella verso l’aurora.
[Salmo 129/130, nella traduzione di mons. Gianfranco Ravasi]
più che la sentinella verso l’aurora.
[Salmo 129/130, nella traduzione di mons. Gianfranco Ravasi]
Pur
non guardando al passato, e senza stabilire alcun confronto col tempo
di prima, e pur guardando in avanti verso il mattino, la sentinella è
ben consapevole che la notte è notte. Prescindiamo da un disordine
più generale, che investe tutta l’Europa [e che ha riflessi
speculari sui suoi prolungamenti asiatici e africani]. Guardiamo per
ora solo all’Italia. Siamo di fronte a evidenti sintomi di
decadenza globale.
Anzitutto
sul piano demografico: abbiamo il tasso di natalità più basso,
sicché se continuassimo sempre in questo modo, si profilerebbe tra
un secolo e mezzo l’estinzione del nostro popolo. E comunque nella
nostra società, a un crescente numero di anziani e di vecchi presto
non sarà più un valido compenso il numero di giovani e di persone
mature. Già oggi i minori di diciotto anni sono solo dieci milioni,
su cinquanta, cioè un quinto del totale.
In
secondo luogo, sganciato sempre più sistematicamente il matrimonio
dal necessario e imprescindibile rapporto con la fecondità, si hanno
due conseguenze:
-
la fecondità cercata, quando è cercata, per conto suo, cioè non
come realizzazione umana della pienezza della personalità, ma come
questione di ingegneria genetica, che finisce quasi sempre con
l’essere avulsa da qualunque spiritualità;
-
e dall’altra parte l’atto sessuale tende sempre di più a
dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che
si fa sempre più autonomo e più sofisticato, fino alle forme più
perverse, come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli
e di grave perdita delle culture.
-
In terzo luogo questa ossessione del piacere sessuale, come porta a
una continua ed eccessiva stimolazione dell’istinto naturale, così
lo infiacchisce nelle sue stesse potenzialità naturali [e sono
segnalate alte percentuali di questo decadimento]. E ancora porta
[con altri fattori concomitanti quale l’eccesso furibondo di
immagini mediatiche] porta, dico, all’ottundersi delle facoltà
superiori dell’intelligenza, cioè la creatività, la
contemplazione naturale, il discernimento, per una inabilità alla
durata dell’attenzione e del confronto, e quindi dell’elementare
capacità critica.
-
In quarto luogo la scuola, specialmente la scuola superiore - in
gravissimo ritardo nel rinnovamento dei suoi ordini, delle sue
strutture e dei suoi programmi - è sempre più inadeguata a
compensare questo vuoto desolante: e in certi ambiti locali è
fatalisticamente rassegnata a non funzionare più per nulla.
-
Infine, al vuoto ideale e conseguentemente etico, si tenta dai più
di compensare con la ricerca spasmodica di ricchezza: per molti al di
là di ogni effettivo bisogno vitale, elevata a scopo a se stessa. Si
verifica così per parecchi ciò che la prima epistola a Timoteo
[6,9] chiama il laccio di una bramosia insensata e funesta.
Così,
alla inappetenza diffusa dei valori - che realmente possono liberare
e pienificare l’uomo - corrispondono appetiti crescenti di cose -
che sempre più lo materializzano e lo cosificano e lo rendono
schiavo.
Questa
è la notte, la notte delle persone: la notte davvero impotente,
uscita dai recessi dell’inferno impotente, nella quale la persona è
custodita rinchiusa in un carcere senza serrami [Sap 17, 13.15].
La
notte delle comunità
In
questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso
del con-essere [il Mit-sein heideggeriano: pur esso, però,
insufficiente, come cercherà di insistere Levinas]: e la comunità è
fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre
più piccole [di qui la fatale progressione localistica] sino alla
riduzione al singolo individuo. E’ appunto il singolo ciò su cui
costruisce tutta la sua dottrina l’ideologo della Lega: i diritti
sono solo degli individui, il diritto è solo individuale. E perciò
rispetto agli altri non vi possono essere che contratti, in funzione
dei rispettivi interessi e del reciproco scambio. “Noi stiamo
entrando in un’età caratterizzata dal primato del contratto e
dall’eclissi del patto di fedeltà”. Un’età, dunque, in cui
“gli ordinamenti federali sono sistemi in cui si tratta e si
negozia senza soste”.
Al
che ha già risposto Cacciari, concludendo appunto su “Micro Mega”
il suo dialogo con Miglio: cioè che questo di Miglio è puro
occasionalismo [invero alla sua volta teologico, a dispetto della sua
grande pretesa di laicità] e che per tale via si ridurrebbe “il
politico a pura contrattazione economica, per dissolvere il sistema
in un coacervo di accordi e di convenzioni.” E perciò Cacciari gli
ripropone la domanda che aveva già formulato: “Che cosa
differenzia un tale sistema da quello che regola gli accordi fra
imprese industriali e commerciali?”
C’è
da chiedersi, a questo punto, se tali degenerazioni non siano insite
nella decadenza del pensiero occidentale, come sostiene Levinas. A
suo parere, possono essere evitate non con un semplice richiamo
all’altruismo e alla solidarietà; ma ribaltando tutta la
impostazione occidentale, cioè ritornando alla impostazione ebraica
originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla
libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento più
solenne e fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro
la Legge, hanno detto: “Faremo e udremo” [Es 24,7]. Cioè essi
scelsero un’adesione al Bene, precedente alla scelta tra bene e
male. Realizzarono così un’idea di una pratica anteriore
all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la
Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via alla vera
conoscenza. Questa accettazione è la nascita del senso, l’evento
fondante l’instaurarsi di una responsabilità irrecusabile.
L’accoglimento
della Rivelazione è una caratterizzazione dell’uomo come risposta,
come coscienza della destinazione che porta all’Altro. Ben avanti
ogni sermone edificante, ogni moralismo, ogni paternalismo: c’è
una relazione e una responsabilità che mi costituisce prima ancora
che io possa chiedermi come devo comportarmi e cosa devo fare.
Comunque
si può affermare di Lazzati che, anche se non ha svolto queste
premesse teoriche, e se ha semplicemente tutto ricondotto - anche
l’etica - al mistero di Cristo, suprema fondazione di ogni chiamata
dell’uomo, ha però sempre visto il mistero di Cristo
indissolubilmente congiunto a una eticità rigorosa e sistematica.
Egli
ne ha analizzato e approfondito e, quel che più conta, ne ha
testimoniato con i fatti, tutte le applicazioni in ogni ambito
dell’esistenza personale e comunitaria. Da giovane laico si è
impegnato nell’Azione Cattolica e nella cultura. Così, fatto
prigioniero, dal primo giorno all’ultimo dei due anni di
internamento nei Lager tedeschi, ha incessantemente cercato di
infondere speranze e costanza e fedeltà nei compagni di prigionia.
Rimpatriato, ha fatto tacere ogni preferenza personale, ha
semplicemente riconosciuto il dovere del momento, e si è impegnato
in politica ad tempus e sempre con limpido e nobile rigore etico.
E
dopo, con la stessa semplicità, è ritornato ai suoi studi e al suo
insegnamento, e soprattutto al suo magistero continuo, col quale
inculcava ai più giovani la passione etica nell’esercizio delle
singole professioni. E finalmente ha ancora testimoniato la sua
superiorità etica nella sua sofferta indipendenza e imparzialità di
Rettore all’Università Cattolica. E poi nella sua lunga malattia
fino alla morte.
L’illusione
dei rimedi facili e delle scorciatoie per uscire dalla notte
Ritornando
ora all’oracolo di Isaia, e preso atto che esso parla di notte, e
di notte fonda, dobbiamo ancora soggiungere che esso non lascia
grandi speranze ai suoi interpellanti: ma con voluta ambiguità,
annunzia sì il mattino, ma anche subito il ritorno della notte.
L’oracolo del profeta non vuole alimentare illusioni di immediato
cambiamento, e anzi invita a insistere, a ridomandare, a chiedere
ancora alla sentinella, senza però lasciare intravedere prossimi
rimedi.
Potremo
anche per questo aspetto trovare qualche indicazione valida per noi
ora, e sempre esempi validi in Lazzati. Certamente, anzitutto,
l’indicazione e l’esempio di una perseveranza durevole che sa,
anche nelle circostanze estreme, sfuggire alla tentazione di
soluzioni facili e di anticipazioni tattiche.
Oserei
aggiungere un consiglio che, a mio avviso, emerge dalla nuova
congiuntura che si sta creando nel nostro Paese, proprio in questi
giorni dopo la formazione del nuovo governo.
Conviene
ripensare alle cause profonde della notte, quali già Lazzati le
indicava, agli inizi degli anni ’80, come realtà intrinseche alla
nostra cristianità italiana. Anzitutto una porzione troppo scarsa di
battezzati consapevoli del loro battesimo rispetto alla maggioranza
inconsapevole. Ancora, l’insufficienza delle comunità che
dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici
impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito
proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme
all’evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e
soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi una
attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché a
una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità
del rapporto laici-clero, il quale non tanto deve guidare
dall’esterno il laicato, ma proporsi più decisamente il compito
della formazione delle coscienze, non a una soggezione passiva o a
una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profondo ed
autentico e quindi ad un’alta eticità privata e pubblica.
Ebbene,
se queste erano, e sono tuttora, le cause profonde della nostra
notte, non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi
politici, o peggio rinunziando a un giudizio severo nei confronti
dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso
la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel
campo [per esempio la politica familiare e la politica scolastica].
Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte ad una scelta che
non può essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di
azione di governo ma di un aut-aut istituzionale.
Non
si può in nessun modo indulgere alla formula giornalistica della
Seconda Repubblica, impropria, anzi erronea imitazione del modo
francese di numerare la successione delle forme costituzionali
avvenuta nel Paese vicino.
Non
si vuol dire, con questo, che nel caso nostro non ci siano cose da
cambiare, in corrispondenza delle grosse modificazioni intervenute
nella nostra società negli ultimi decenni. E’ molto avvertita, per
esempio, una diffusa e pervasiva alterazione patologica dei rapporti
tra privati, partiti e pubblica amministrazione; come pure la
pletoricità e macchinosità di un sistema amministrativo che non si
adatta più alle dinamiche di una società moderna; e ancor più la
degenerazione privilegiaria e clientelare dello stato sociale
[tradito]; la necessità di una lotta sincera e non simulata alla
criminalità organizzata; e infine l’emergenza e la necessità di
adeguata valorizzazione di una nuova classe operosa di piccoli e medi
imprenditori.
Si
può aggiungere l’esigenza di uno sveltimento della produzione
legislativa, e perciò la riforma dell’attuale bicameralismo; e
soprattutto un’applicazione più effettiva e più penetrante delle
autonomie locali, da perseguirsi, però, al di fuori di ogni mito che
tenda a stabilire distinzioni aprioristiche nel seno del popolo
italiano e che perciò tenda a scomporre l’unità inviolabile della
Repubblica.
Se
tutto questo sarà fatto, nel rispetto della legalità e senza
spirito di sopraffazione e di rapina, nell’osservanza formale e
sostanziale delle modalità costituzionali, non ci può essere nessun
pregiudizio negativo, anzi ci deve essere un auspicio favorevole.
Ma
c’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Certo
oltrepasserebbe questa soglia una disarticolazione federalista come è
stata più volte prospettata dalla Lega. E ancora oltrepasserebbe
questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai
diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dall’attuale
Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione
che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei
poteri fondamentali, legislativo esecutivo e giudiziario, cioè per
ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento
dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato
con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di
plebiscito.
Questi
oltrepassamenti possono essere già più che impliciti nell’attuale
governo: per il modo della sua formazione, per la sua composizione,
per il suo programma e per la conflittualità latente ma non del
tutto occultata con il Capo dello Stato. Perciò, più che di Seconda
Repubblica si potrebbe parlare del profilarsi di una specie di
triumvirato: il quale, verificandosi certe condizioni oggettive e
attraverso una manipolazione mediatica dell’opinione, può
evolversi in un principato più o meno illuminato, con coreografia
medicea [trasformazione appunto di una grande casa
economico-finanziaria, in Signoria politica].
In
questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e
ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di
nessuna trattativa, almeno fino a quando non siano date positive,
evidenti e durevoli prove in contrario.
Convertitevi!
La
sostanza ultima dell’oracolo della sentinella è al di fuori di
ogni ambiguità: Convertitevi!
La
radice ebraica impiegata nel libro di Isaia significa per sé
‘ritornare’. Ma può esprimere anche, specificamente, il
rivolgersi a Dio, cioè la conversione. Secondo la sentinella non si
tratta tanto di cercare nella notte rimedi esteriori più o meno
facili, ma anzitutto di un trasformarsi interiormente, di un
dietrofront intimo, di un voltarsi positivo verso il Dio della
salvezza.
Radice
di questa conversione è anzitutto la contrizione, il pentimento.
Nel caso nostro dobbiamo anzitutto convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe [non solo errori o mere insufficienze], grandi e veri e propri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta.
Nel caso nostro dobbiamo anzitutto convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe [non solo errori o mere insufficienze], grandi e veri e propri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta.
C’è
un peccato, una colpevolezza collettiva: non di singoli, sia pure
rappresentativi e numerosi, ma di tutta la nostra cristianità, cioè
sia di coloro che erano attivi in politica sia dei non attivi, per
risultanza di partecipazione a certi vantaggi e comunque per consenso
e solidarietà passiva.
Ma
per quanto fosse convinto ed esplicitato e realizzato nei fatti,
questo pentimento non basterebbe ancora. Inquadrandolo nel pensiero
di Lazzati - soprattutto degli anni in cui cominciava più
direttamente a pensare alla Città dell’uomo - si dovrebbe dire che
i battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a
quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei
cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e
al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del
loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato
sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente
sociale e politico.
Ma
la partenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di
dichiarare e perseguire lealmente - in tanto baccanale dell’esteriore
- l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore.
Questo potrebbe sembrare persino ovvio e banale: ma ovvio non è,
come appare chiaramente da tanti segnali nel mondo cattolico
italiano, da tante affermazioni contraddittorie che si susseguono, da
tante preoccupazioni ben altre che di fatto animano gruppi e
personalità, vecchie e nuove, del laicato e del clero.
Mi
si consenta perciò di precisare meglio che cosa è questo primato
dell’interiore.
Muovo fondamentalmente da tre testi di s. Paolo.
Muovo fondamentalmente da tre testi di s. Paolo.
Rm
7, 15-24: Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti
non quello che voglio, io faccio, ma quello che detesto (…). Io so
infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è
in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti
io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (…). Io
trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male
è accanto a me. Infatti acconsento alla legge di Dio secondo l’uomo
interiore, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove
guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del
peccato, che è nelle mie membra.
2
Cor 4, 16-18: Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro
uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di
giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra
tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria,
perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle
invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili
sono eterne.
Ef
3, 14-16: Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni
paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda,
secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente
rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore.
L’uomo
interiore
Dal
confronto di questi tre testi possiamo ricavare:
- il significato fondamentale, preso dalla filosofia greca volgarizzata, di uomo interiore in s. Paolo;
- e a un tempo il suo slittamento verso il concetto propriamente semitico [ed evangelico, e tipicamente paolino] di uomo nuovo.
- il significato fondamentale, preso dalla filosofia greca volgarizzata, di uomo interiore in s. Paolo;
- e a un tempo il suo slittamento verso il concetto propriamente semitico [ed evangelico, e tipicamente paolino] di uomo nuovo.
Tutt’e
due sono indispensabili, a parer mio: e tutt’e due devono essere
tenuti presenti e valorizzati nella ricostruzione etica che è
necessaria perché la nostra conversione sia piena e matura: e perché
l’eventuale operare politico dei cristiani si possa effettivamente
sottrarre agli errori e alle colpe sinora commesse.
Cominciamo
dall’uomo interiore nell’accezione della filosofia greca
volgarizzata, ben presente nella frase riferita dell’epistola ai
Romani: è l’uomo secondo ragione, secondo la mente che impegna per
il meglio le sue facoltà a costruirsi pienamente secondo quelle
virtù che chiamiamo cardinali [e che anche gli antichi chiamavano
così]: la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia.
Dobbiamo
riconoscere che noi cristiani le abbiamo di fatto trascurate: tutte o
quasi tutte, almeno per certe loro parti o implicanze. Abbiamo magari
insistito molto sulla temperanza, e in particolare sulla castità, ma
assai meno sulla fortezza: che ci possa far sostenere non dico la
persecuzione violenta, ma appena il disagio sociale di una certa
diversità dall’ambiente che ci circonda, oppure che ci porti ad
affrontare il contrasto e la disapprovazione sociale o comunitaria,
per difendere esternamente una tesi sentita in coscienza come
cogente.
Ancor
meno abbiamo insistito sulla giustizia in quanto obbligo di veracità
verso il prossimo [e di qui la tendenza a tante dissimulazioni,
considerate spesso dai non cristiani tipicamente nostre]. Soprattutto
non abbiamo saputo raggiungere un senso pieno della giustizia,
superando una sua concezione limitata solo a certi rapporti
intersoggettivi e sapendola estendere ai doveri verso le comunità
più grandi in cui noi siamo inseriti. E’ a questo punto che si è
potuto asserire da altri [Ernesto Galli della Loggia], in un
ripensamento della vicenda storica del liberalismo nei confronti del
cattolicesimo, nei decenni trascorsi dell’ltalia unitaria, che al
vuoto religioso o all’anticlericalismo del liberalismo, i cattolici
non hanno offerto il compenso che potevano dare e che doveva essere
loro proprio, per l’edificazione di un’etica pubblica.
Se
questo è vero - come può apparire vero anche a prescindere dalla
ricostruzione storica del Galli della Loggia, in conformità a molti
e insistenti richiami Lazzatiani in materia - dobbiamo riconoscere di
avere negli ultimi decenni perduto un’occasione storica unica e
probabilmente irrecuperabile, e dobbiamo, pur tardivamente, cercare
di riempire il vuoto e di correggere i molti errori e peccati.
Dobbiamo ora porci come obiettivo urgente e categorico di formare le
coscienze dei cristiani [almeno di quelli che vorrebbero essere
consapevoli e coerenti] per edificare in loro un uomo interiore
compiuto anche quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della
veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia [quanto
ancora c’è da fare soprattutto per l’eticità tributaria, oltre
le facili giustificazioni forse talvolta ovvie, ma sempre non
consentite al cristiano!].
L’uomo
nuovo e la città dell’uomo
Ma
san Paolo ci insegna anche che all’uomo interiore si oppone
[combatte contro] un’altra legge o forza antitetica che è nelle
radici della nostra corporeità intaccata dal peccato. E la
consapevolezza di questo dovrebbe anzitutto portarci tutti
all’umiltà: ad edificare i nostri sforzi individuali e collettivi
sul presupposto della nostra miserabile fragilità, che fa dire
all’Apostolo: sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo
votato alla morte?
Umiltà,
dunque: individuale e collettiva di noi tutti cristiani. Mentre è
tanto facile che, come collettività, procediamo con falsa sicurezza,
con infelice parrisia, se non con arroganza, che proprio ripensando a
tutti questi decenni non dovremmo avere, ma dovremmo piuttosto
sentire come ragione di confusione e di vergogna.
L’uomo
interiore, tuttavia, può essere salvato, anzi, come dice san Paolo,
rinnovarsi di giorno in giorno se è potentemente rafforzato dallo
Spirito di Dio. Allora l’uomo interiore può essere elevato a uomo
nuovo, veramente essere in Cristo nuova creazione [2 Cor 5, 17 e Gal
6, 15]; rivestito di Cristo come è realmente ogni battezzato [Gal 3,
27]. Può così essere fortificato per ogni combattimento dalla
panoplia di Dio [Ef 6,11]; cioè rivestito della corazza della fede e
dell’amore [I Tes 5,8], e rivestito, come eletto di Dio, di viscere
di misericordia [Col 3, 12].
Ma
appunto tutto ciò deve essere di ora in ora implorato da Dio,
credendo e confidando nella sua Paternità misericordiosa: piego le
ginocchia [...] perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua
gloria [...]. In ultima analisi, è solo questo che può vincere la
notte. Lo squarcio operato nel buio - nel momentaneo leggero peso
della nostra tribolazione - dal fulgore dell’enorme, letteralmente
“eterno peso di gloria”.
Ma
per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire
nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè
abituati a scrutare la storia, ma nella luce del metastorico,
dell’escatologia.
Purtroppo
siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè ad immergerci
continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la
nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani [sempre
egoistico], non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là
dell’io. [Anzi, qualcuno poteva persino vantarsi di questo, come
prova di concretezza e di realismo: non accorgendosi che tutto si
riduceva a rimedio empirico, ad espediente effimero].
C’è
un aspetto e una conseguenza particolare di questa auspicabile
sanazione della nostra vista - sanazione, dico, operata dal richiamo
escatologico - che mi pare, concludendo, di dovere fra le altre
particolarmente segnalare: il ricordare sempre che la Chiesa non è
ancora il Regno di Dio: ne è, se mai, il germe e l’inizio. E va
aggiunto che delle sue due funzioni: l’evangelizzazione [cioè
l’annunzio del Cristo morto, risorto, glorificato] e l’animazione
cristiana delle realtà temporali, la seconda spesso può concernere
il Regno in modo molto indiretto.
Il
che porta a concludere che tutte queste realtà temporali che
dovrebbero essere ordinate cristianamente [compresa la politica]
possono essere finemente e saggiamente relativizzate, secondo le
diverse opportunità concrete: e comunque sempre vanno rispettate
nella loro autonomia e perseguite da laici consapevoli e competenti
che, come diceva Lazzati, vivono gomito a gomito, per così dire,
degli uomini del loro tempo e di varia estrazione culturale…
attraverso il confronto e il dialogo, naturalmente senza perdita
della propria identità, sempre nel rispetto della natura di tali
realtà e della loro legittima autonomia, con sincero sforzo di
comprendere l’altro.
E
questa è la via - diurna e non notturna - verso la Città dell’uomo,
nella prospettiva sempre intensamente mirata della Città celeste,
della nuova Gerusalemme.
Giuseppe Dossetti
Giuseppe Dossetti
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