La
stessa relazione che esiste tra le conclusioni e i principi quando
l'intelletto si serve del raziocinio, esiste pure tra il predicato e
il soggetto quando l'intelligenza formula giudizi affermativi e
negativi.
Se infatti l'intelletto intuisse subito nei principi la verità delle conclusioni, mai più intenderebbe servendosi del raziocinio.
Così pure, se l'intelletto nell'apprendere la quiddità del soggetto vedesse subito tutte le cose che gli si possono attribuire o che gli si debbono negare, non intenderebbe certo formulando giudizi affermativi e negativi, ma solo conoscendo l'essenza.
Appare dunque evidente che identica è la ragione per cui il nostro intelletto conosce servendosi del raziocinio e formulando giudizi affermativi e negativi: per il fatto cioè che esso nella prima apprensione di un oggetto non è in grado di cogliere subito tutto ciò che quello contiene nella sua virtualità.
E ciò proviene, come si è detto , dalla debolezza della nostra luce intellettuale.
Essendovi dunque nell'angelo una luce intellettuale perfetta, poiché egli è uno "specchio puro" e "tersissimo", secondo l'espressione di Dionigi [De div. nom. 4], ne segue che l'angelo, come non intende servendosi del raziocinio, così neppure intende formulando giudizi affermativi e negativi.
Pur tuttavia egli comprende le affermazioni e le negazioni degli enunciati, come capisce la logicità dei sillogismi: infatti conosce le cose composte in modo semplice, le cose mutevoli in maniera immutabile, le cose materiali in modo immateriale.
Se infatti l'intelletto intuisse subito nei principi la verità delle conclusioni, mai più intenderebbe servendosi del raziocinio.
Così pure, se l'intelletto nell'apprendere la quiddità del soggetto vedesse subito tutte le cose che gli si possono attribuire o che gli si debbono negare, non intenderebbe certo formulando giudizi affermativi e negativi, ma solo conoscendo l'essenza.
Appare dunque evidente che identica è la ragione per cui il nostro intelletto conosce servendosi del raziocinio e formulando giudizi affermativi e negativi: per il fatto cioè che esso nella prima apprensione di un oggetto non è in grado di cogliere subito tutto ciò che quello contiene nella sua virtualità.
E ciò proviene, come si è detto , dalla debolezza della nostra luce intellettuale.
Essendovi dunque nell'angelo una luce intellettuale perfetta, poiché egli è uno "specchio puro" e "tersissimo", secondo l'espressione di Dionigi [De div. nom. 4], ne segue che l'angelo, come non intende servendosi del raziocinio, così neppure intende formulando giudizi affermativi e negativi.
Pur tuttavia egli comprende le affermazioni e le negazioni degli enunciati, come capisce la logicità dei sillogismi: infatti conosce le cose composte in modo semplice, le cose mutevoli in maniera immutabile, le cose materiali in modo immateriale.
(...)
Si
è detto infatti che l'angelo per conoscere non ha bisogno di
formulare giudizi affermativi e negativi, ma gli basta intuire la
quiddità delle cose.
Ora, al dire di Aristotele , l'intelletto riguardo alle quiddità è sempre nel vero, come il senso rispetto al proprio oggetto.
In noi tuttavia può insinuarsi accidentalmente l'inganno e la falsità, quando veniamo a conoscere l'essenza delle cose, a motivo di qualche composizione [almeno implicita]: o perché attribuiamo la definizione di una cosa a un'altra, oppure perché le parti di una definizione sono incompatibili; come se si volesse dare di una cosa questa definizione: animale quadrupede volatile (mentre appunto non esiste un animale siffatto).
Ma ciò accade per le cose composte, la cui definizione è desunta da elementi diversi, di cui uno funge da parte materiale rispetto all'altro.
Nell'intellezione delle quiddità semplici invece non ci può essere falsità, come insegna Aristotele [Met. 9, 10]: poiché tali quiddità o non sono raggiunte affatto, e allora non conosciamo nulla intorno ad esse, oppure sono conosciute come sono realmente.
Perciò nell'intelletto di qualsiasi angelo, di per sé, non ci può essere né falsità, né errore, né inganno; tuttavia ciò può accadere accidentalmente.
In modo comunque diverso da come avviene in noi.
Noi infatti raggiungiamo talora il concetto della quiddità per mezzo di giudizi affermativi e negativi, come quando ricerchiamo una definizione per esclusione, o mediante una dimostrazione. Ora, ciò non si verifica negli angeli, poiché essi nel conoscere la quiddità di una cosa conoscono insieme tutte le proprietà che le appartengono.
È chiaro però che la quiddità di una cosa può servire di base per conoscere tutto ciò che ad essa appartiene o ripugna nell'ordine naturale, non già per conoscere ciò che dipende da una disposizione soprannaturale di Dio.
Quindi gli angeli buoni, avendo una volontà retta, dalla conoscenza della quiddità di una cosa non formulano alcun giudizio su ciò che la riguarda nell'ordine naturale se non presupponendo la disposizione divina.
E così in essi non può insinuarsi né la falsità né l'errore.
I demoni invece, avendo sottratto con volontà perversa l'intelletto alla sapienza divina, portano talora un giudizio assoluto sulle cose secondo la loro condizione naturale.
E in ciò che appartiene naturalmente ad esse non si ingannano.
Possono però ingannarsi in tutto ciò che può trovarsi in esse di soprannaturale: osservando p. es. un morto, giudicheranno che non debba più risorgere; oppure vedendo l'uomo Cristo potranno pensare che egli non sia Dio.
Ora, al dire di Aristotele , l'intelletto riguardo alle quiddità è sempre nel vero, come il senso rispetto al proprio oggetto.
In noi tuttavia può insinuarsi accidentalmente l'inganno e la falsità, quando veniamo a conoscere l'essenza delle cose, a motivo di qualche composizione [almeno implicita]: o perché attribuiamo la definizione di una cosa a un'altra, oppure perché le parti di una definizione sono incompatibili; come se si volesse dare di una cosa questa definizione: animale quadrupede volatile (mentre appunto non esiste un animale siffatto).
Ma ciò accade per le cose composte, la cui definizione è desunta da elementi diversi, di cui uno funge da parte materiale rispetto all'altro.
Nell'intellezione delle quiddità semplici invece non ci può essere falsità, come insegna Aristotele [Met. 9, 10]: poiché tali quiddità o non sono raggiunte affatto, e allora non conosciamo nulla intorno ad esse, oppure sono conosciute come sono realmente.
Perciò nell'intelletto di qualsiasi angelo, di per sé, non ci può essere né falsità, né errore, né inganno; tuttavia ciò può accadere accidentalmente.
In modo comunque diverso da come avviene in noi.
Noi infatti raggiungiamo talora il concetto della quiddità per mezzo di giudizi affermativi e negativi, come quando ricerchiamo una definizione per esclusione, o mediante una dimostrazione. Ora, ciò non si verifica negli angeli, poiché essi nel conoscere la quiddità di una cosa conoscono insieme tutte le proprietà che le appartengono.
È chiaro però che la quiddità di una cosa può servire di base per conoscere tutto ciò che ad essa appartiene o ripugna nell'ordine naturale, non già per conoscere ciò che dipende da una disposizione soprannaturale di Dio.
Quindi gli angeli buoni, avendo una volontà retta, dalla conoscenza della quiddità di una cosa non formulano alcun giudizio su ciò che la riguarda nell'ordine naturale se non presupponendo la disposizione divina.
E così in essi non può insinuarsi né la falsità né l'errore.
I demoni invece, avendo sottratto con volontà perversa l'intelletto alla sapienza divina, portano talora un giudizio assoluto sulle cose secondo la loro condizione naturale.
E in ciò che appartiene naturalmente ad esse non si ingannano.
Possono però ingannarsi in tutto ciò che può trovarsi in esse di soprannaturale: osservando p. es. un morto, giudicheranno che non debba più risorgere; oppure vedendo l'uomo Cristo potranno pensare che egli non sia Dio.
Tommaso D'Aquino
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