Arrivai
a Cartagine e mi trovai a bagno in una caldaia ribollente di amori
colpevoli. Io non amavo ancora e amavo l'amore: e una più segreta
povertà mi faceva odiare in me stesso proprio questo non esser
povero abbastanza. Cercavo qualcosa da amare, amando l'amore, e
odiavo la serenità di una via senza trappole. Avevo fame e rifiutavo
il nutrimento interiore, cioè te, Dio mio: non era quello il cibo
per cui mi consumavo, ma se non smaniavo per un cibo eterno non era
perché ne fossi sazio: anzi più digiuno ne ero, e più nausea mi
dava. Non era in buona salute l'anima, era come esulcerata e si
gettava fuori, infelice, nel desiderio di farsi toccare e graffiare
dai corpi: che nessuno amerebbe, se non avessero un'anima. Amare ed
essere amato mi era più dolce se possedevo anche nel corpo la
persona amata. E così inquinavo la sorgente dell'amicizia con i
veleni della passione e offuscavo la sua chiarezza con l'inferno del
sesso. Eppure, sgraziato e volgare com'ero, mi studiavo follemente,
nella mia straripante vanità, d'essere raffinato ed elegante. Infine
precipitai nell'amore, da cui volevo esser fatto prigioniero. Dio mio
di compassione, di quanto fiele mi hai cosparso quella dolcezza!
Tale è la tua bontà. Fui amato, giunsi a un segreto vincolo di
intimità, e mi avvolgevo voluttuosamente in grovigli d'angoscia per
cedere ai colpi delle fruste di fuoco: sì, gelosie e sospetti e
paure e rabbie e litigi.
Mi affascinavano gli spettacoli teatrali, pieni di immagini delle mie angosce e di paglia per il mio fuoco. Come mai vuole piangere l'uomo in questi luoghi, davanti agli spettacoli di tragedie e morti che mai vorrebbe egli stesso soffrire? Pure, soffrire è proprio quello che lo spettatore vuole, e questa sofferenza gli è un piacere. Cos'è, se non la nostra povera follia? Meno si è immuni da quelle passioni, e più ci si commuove: anche se il proprio soffrire si chiama passione, e il soffrire per gli altri compassione. Ma infine che razza di compassione è se son solo finzioni, effetti da teatro? Al punto che lo spettatore non è indotto a portare soccorso, ma viene solo invitato a una dolorosa immedesimazione, e apprezza tanto più l'attore tragico quanto più questa riesce. E se la recitazione di quelle disgrazie antiche o immaginarie non fa soffrire abbastanza lo spettatore, quello se ne va annoiato e protesta; se invece soffre, rimane attento e piange, e così si diverte.
Dunque amiamo le lacrime e il dolore. Senza dubbio ogni uomo desidera la gioia. E se a nessuno piace essere infelice, forse è il piacere della compassione, che non può esser senza qualche dolore, la sola ragione di amare il dolore? E anche questo è un rivolo di quella sorgente, l'amicizia. Ma dove va? Dove scorre? E perché sfocia in un fiume di pece bollente, nei gorghi di un piacere malinconico, in cui la stessa amicizia si muta e si stravolge, sviandosi e precipitando di propria iniziativa dalla sua limpida serenità? E allora bisogna rifiutare la compassione? Niente affatto. Si ami pure la sofferenza, talvolta. Ma guardati dall'impurità anima mia! Resta sotto la protezione del mio Dio, il Dio dei nostri padri glorificato e celebrato in ogni tempo, guardati dall'impurità. Non sono privo di compassione, ora: ma allora a teatro io godevo insieme con gli amanti stretti nei loro abbracci colpevoli anche se simulati soltanto per il gioco della scena, e in una sorta di compassione mi rattristavo delle loro separazioni; e in tutt'e due i modi mi divertivo. Oggi veramente provo maggior compassione di chi sguazza nelle gioie colpevoli che non di chi soffre duramente per la privazione di un piacere distruttivo e di una felicità grama. E questa è certo compassione più autentica, ma in questo caso non è un piacere rattristarsi. Anche se si approva per dovere di carità chi soffre per gli infelici, uno che abbia una compassione genuina preferirebbe che non ci fosse di che soffrire. Se esiste una benevolenza maligna - che è impossibile - allora anche chi prova vera e sincera compassione può desiderare che esistano degli infelici di cui avere compassione. La sofferenza dunque a volte la si può approvare: amarla, mai. Tu, Dio che ami le anime, senti per loro una compassione tanto più pura e incorruttibile della nostra, quanto sei invulnerabile al dolore. Ma chi può tanto?
Ma io allora amavo quella pena, infelice, e cercavo di che procurarmela: e in quelle angosce estranee e immaginarie, da commediante, più lacrime riusciva a strapparmi l'attore e più mi piaceva la sua recitazione, e tanto più fortemente subivo il suo potere di seduzione. Non c'è da meravigliarsene, perché la povera pecora che ero, smarrita lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza, era deturpata da una volgarissima scabia. E perciò questo amore della pena - non per farmene penetrare molto in profondità, perché certo non avrei amato patire io stesso quello che amavo negli spettacoli - ma quasi per farmene sfiorare l'epidermide, da quelle pene immaginarie e teatrali che erano. Ma come quando ci si gratta la scabia, le conseguenze erano infiammazioni, gonfiori e infezioni disgustose. Ma era vita quella vita, Dio mio?
Ma alta su di me, lontana, fedele, volteggiava la tua misericordia. In che malvagie cose mi sono disperso. Ho ceduto a una curiosità sacrilega, fino a farmi trascinare, dimentico di te verso le cose più basse e infide, e a un insidioso culto dei demoni, ai quali offrivo le mie peggiori azioni in sacrificio. Ma intanto tu continuavi a fustigarmi! Perfino in mezzo alla folla delle tue cerimonie, fra le pareti della tua chiesa ho osato desiderare il frutto della morte, e darmi da fare per ottenerlo. E allora tu mi hai staffilato duramente, ed era ancora nulla in confronto alla mia colpa, o tu grandiosa misericordia mia, mio Dio, rifugio che mi scampi alla gente nefasta e devastante fra cui vagavo carico di boria, e sempre più lontano per le mie vie che amavo invece delle tue: mia fuggitiva libertà, che amavo.
Anche gli studi cosiddetti liberali avevano il loro sbocco nei fori litigiosi dove avrei dovuto eccellere: e dove la gloria è proporzionale all'abilità negli imbrogli. Tale è la cecità degli uomini, che perfino della cecità si gloriano. Ormai ero fra i primi alla scuola di retorica e ne andavo superbo: gonfio di vento ero, benché di gran lunga più tranquillo - Signore, tu lo sai - e del tutto estraneo alle gazzarre dei "perturbatori" - già, questo soprannome sinistro e diabolico è come una patente di snobismo - fra i quali vivevo. Serbavo dunque un certo pudore nell'impudenza, perché io non ero come loro: stavo con loro a volte, e mi divertiva la loro amicizia, ma evitavo sempre con orrore di partecipare alle loro imprese, cioè alle gazzarre prepotenti con cui aggredivano la timidezza dei nuovi arrivati e li spaventavano a furia di scherzi gratuiti, giusto per sfogare la loro maligna allegria. Niente è più simile alle azioni dei demoni. Non ci sarebbe stato nomignolo più adatto di "perturbatori", perturbati com'erano essi stessi per primi e pervertiti da quegli spiriti beffardi: vittime delle loro seduzioni e dei loro raggiri, per il solo fatto di prender tanto gusto alle beffe e ai raggiri.
Mi affascinavano gli spettacoli teatrali, pieni di immagini delle mie angosce e di paglia per il mio fuoco. Come mai vuole piangere l'uomo in questi luoghi, davanti agli spettacoli di tragedie e morti che mai vorrebbe egli stesso soffrire? Pure, soffrire è proprio quello che lo spettatore vuole, e questa sofferenza gli è un piacere. Cos'è, se non la nostra povera follia? Meno si è immuni da quelle passioni, e più ci si commuove: anche se il proprio soffrire si chiama passione, e il soffrire per gli altri compassione. Ma infine che razza di compassione è se son solo finzioni, effetti da teatro? Al punto che lo spettatore non è indotto a portare soccorso, ma viene solo invitato a una dolorosa immedesimazione, e apprezza tanto più l'attore tragico quanto più questa riesce. E se la recitazione di quelle disgrazie antiche o immaginarie non fa soffrire abbastanza lo spettatore, quello se ne va annoiato e protesta; se invece soffre, rimane attento e piange, e così si diverte.
Dunque amiamo le lacrime e il dolore. Senza dubbio ogni uomo desidera la gioia. E se a nessuno piace essere infelice, forse è il piacere della compassione, che non può esser senza qualche dolore, la sola ragione di amare il dolore? E anche questo è un rivolo di quella sorgente, l'amicizia. Ma dove va? Dove scorre? E perché sfocia in un fiume di pece bollente, nei gorghi di un piacere malinconico, in cui la stessa amicizia si muta e si stravolge, sviandosi e precipitando di propria iniziativa dalla sua limpida serenità? E allora bisogna rifiutare la compassione? Niente affatto. Si ami pure la sofferenza, talvolta. Ma guardati dall'impurità anima mia! Resta sotto la protezione del mio Dio, il Dio dei nostri padri glorificato e celebrato in ogni tempo, guardati dall'impurità. Non sono privo di compassione, ora: ma allora a teatro io godevo insieme con gli amanti stretti nei loro abbracci colpevoli anche se simulati soltanto per il gioco della scena, e in una sorta di compassione mi rattristavo delle loro separazioni; e in tutt'e due i modi mi divertivo. Oggi veramente provo maggior compassione di chi sguazza nelle gioie colpevoli che non di chi soffre duramente per la privazione di un piacere distruttivo e di una felicità grama. E questa è certo compassione più autentica, ma in questo caso non è un piacere rattristarsi. Anche se si approva per dovere di carità chi soffre per gli infelici, uno che abbia una compassione genuina preferirebbe che non ci fosse di che soffrire. Se esiste una benevolenza maligna - che è impossibile - allora anche chi prova vera e sincera compassione può desiderare che esistano degli infelici di cui avere compassione. La sofferenza dunque a volte la si può approvare: amarla, mai. Tu, Dio che ami le anime, senti per loro una compassione tanto più pura e incorruttibile della nostra, quanto sei invulnerabile al dolore. Ma chi può tanto?
Ma io allora amavo quella pena, infelice, e cercavo di che procurarmela: e in quelle angosce estranee e immaginarie, da commediante, più lacrime riusciva a strapparmi l'attore e più mi piaceva la sua recitazione, e tanto più fortemente subivo il suo potere di seduzione. Non c'è da meravigliarsene, perché la povera pecora che ero, smarrita lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza, era deturpata da una volgarissima scabia. E perciò questo amore della pena - non per farmene penetrare molto in profondità, perché certo non avrei amato patire io stesso quello che amavo negli spettacoli - ma quasi per farmene sfiorare l'epidermide, da quelle pene immaginarie e teatrali che erano. Ma come quando ci si gratta la scabia, le conseguenze erano infiammazioni, gonfiori e infezioni disgustose. Ma era vita quella vita, Dio mio?
Ma alta su di me, lontana, fedele, volteggiava la tua misericordia. In che malvagie cose mi sono disperso. Ho ceduto a una curiosità sacrilega, fino a farmi trascinare, dimentico di te verso le cose più basse e infide, e a un insidioso culto dei demoni, ai quali offrivo le mie peggiori azioni in sacrificio. Ma intanto tu continuavi a fustigarmi! Perfino in mezzo alla folla delle tue cerimonie, fra le pareti della tua chiesa ho osato desiderare il frutto della morte, e darmi da fare per ottenerlo. E allora tu mi hai staffilato duramente, ed era ancora nulla in confronto alla mia colpa, o tu grandiosa misericordia mia, mio Dio, rifugio che mi scampi alla gente nefasta e devastante fra cui vagavo carico di boria, e sempre più lontano per le mie vie che amavo invece delle tue: mia fuggitiva libertà, che amavo.
Anche gli studi cosiddetti liberali avevano il loro sbocco nei fori litigiosi dove avrei dovuto eccellere: e dove la gloria è proporzionale all'abilità negli imbrogli. Tale è la cecità degli uomini, che perfino della cecità si gloriano. Ormai ero fra i primi alla scuola di retorica e ne andavo superbo: gonfio di vento ero, benché di gran lunga più tranquillo - Signore, tu lo sai - e del tutto estraneo alle gazzarre dei "perturbatori" - già, questo soprannome sinistro e diabolico è come una patente di snobismo - fra i quali vivevo. Serbavo dunque un certo pudore nell'impudenza, perché io non ero come loro: stavo con loro a volte, e mi divertiva la loro amicizia, ma evitavo sempre con orrore di partecipare alle loro imprese, cioè alle gazzarre prepotenti con cui aggredivano la timidezza dei nuovi arrivati e li spaventavano a furia di scherzi gratuiti, giusto per sfogare la loro maligna allegria. Niente è più simile alle azioni dei demoni. Non ci sarebbe stato nomignolo più adatto di "perturbatori", perturbati com'erano essi stessi per primi e pervertiti da quegli spiriti beffardi: vittime delle loro seduzioni e dei loro raggiri, per il solo fatto di prender tanto gusto alle beffe e ai raggiri.
Agostino,Confessioni
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