di Lorenzo Bianchi
Alt!
Prima di prendermi a sassate dandomi dell’oscurantista retrogrado, provate a
seguire le poche righe che ho stilato qui sotto: penso proprio che vi ricrederete.
La
consapevolezza di tale affermazione mi è sorta subito dopo la terminata lettura
di un manga, Evangelion re-take, in cui [OCCHIO SPOILER!] i due protagonisti,
Shinji e Asuka, finiscono finalmente a convolare a nozze e metter su famiglia
[FINE SPOILER]: abbiamo così finalmente un possibile finale strutturato e non
lacunoso della serie (chi anni fa seguì la serie animata e i relativi film sa a
che mi riferisco), in cui non guasta ovviamente il lieto fine. Tuttavia non
voglio parlare qui del fumetto (si tratta di Neon Genesis Evangelion: basta il
nome), dei suoi personaggi o degli intrecci sentimentali e psicologici che
vengono descritti in questo spin-off della serie. Essa semplicemente mi serve
come trampolino di lancio per proporre la riflessione di cui sopra.
Finendo
di leggerlo, sono rimasto commosso dalla tenerezza dei sentimenti mostrati
vicendevolmente tra i due protagonisti: nel momento della crisi, entrambi non
rinunciarono addirittura a mettere a repentaglio la propria vita pur di salvare
l’amato/a (come prima, non sto a raccontare la trama: chi la conosce sa dei
vari problemi che hanno da affrontare, chi non la conosce si informi).
Constatando che in ogni caso il tipo di sentimento lì descritto non era una
pura finzione letteraria, avendo sotto i miei stessi occhi esempi nel mondo
reale che lo ricalcano, mi sono chiesto dal mio punto di vista: dato questo
nobile sentimento che i coniugi riescono a sviluppare l’uno nei confronti
dell’altro, non sarebbe di conseguenza più utile anche a noi sacerdoti avere
moglie? Confesso che per un momento l’idea mi è svolazzata in testa…
Sino
a quando ho capito di star vedendo le cose da una prospettiva totalmente
sballata: infatti, credevo che l’amore coniugale, quello che vede come
“speciale” il proprio partner nei confronti di qualsiasi altra persona, fosse
prerogativa esclusiva di due coniugi appunto, e che per ottenerlo fosse
necessario entrare in un’ottica di matrimonio. Invece, riflettendo più
accuratamente, mi sono reso conto dell’enorme abbaglio: ragionando in tal
senso, infatti, sarebbe stato arduo, se non impossibile, giustificare quel che
hanno fatto dei santi recentemente ricordati nel calendario romano, ossia Santa
Cecilia, San Clemente e i Santi Andrea Dung-Lac e compagni.
Costoro
infatti furono tutti martiri, morendo per amore di Cristo e amando i loro
stessi persecutori, come del resto Gesù stesso aveva fatto; come giustificare
tutto ciò, dando per scontato che le vittime non fossero coniugate con i loro
carnefici? Semplice: invertendo la prospettiva del nostro sguardo. Non più
“l’amore coniugale è un tipo d’amore unico e esperibile solo nel matrimonio”,
ma “il matrimonio sigilla l’amore tra due persone configurandolo come amore
coniugale”: non si tratta di due tipi diversi di amore, ma di due modi diversi
di viverli. Marito e moglie lo vivono l’uno nei confronti dell’altro, mentre
Cristo e i martiri citati sopra (così come le altre legioni di santi non
ricordati per semplice brevità) lo vivono nei confronti di ogni uomo: io che
scrivo, te che leggi, tutti insomma.
E
questo ci riporta al punto iniziale: la questione se il sacerdote possa o meno
sposarsi, quindi, non si pone neppure perché l’amore che egli deve esercitare
nei confronti di ciascuno (dal proprio vescovo al fedele più impenitente) può
già ottenerlo guardando a Cristo, cercando di imitarlo in tutto il suo essere e
per tutti i giorni della propria vita.
(Lorenzo Bianchi)
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