In
questo intervento affronto tre problemi: 1) quale fondamento possiede
l’assunto che la propria vita è assolutamente indisponibile? 2)
nel rapporto tra Persona e Tecnica (medica e biologica) non stiamo
entrando in una zona di rischio e confusione? 3) esiste un obbligo
assoluto di curare e di curarsi a qualsiasi costo? Basta aver
articolato le domande per coglierne l’onnipresenza nei dilemmi
biopolitici dell’ora, concernenti la futura legge sulla fine della
vita, la portata delle indicazioni anticipate di trattamento, il
rapporto medico-paziente, il dettato della nostra Costituzione in
merito.
1)
Nell’eccitata discussione in corso da anni,e
ultimamente infiammatasi, in ordine ad una legge che stabilisca
alcuni (pochi) criteri per la fase finale della vita, decisiva è la
questione se la propria vita sia entro certi limiti disponibile o
viceversa totalmente indisponibile. Quale che sia la risposta, essa
deve essere sostenuta da argomenti riconoscibili e sottoposti ad
esame. Vale la pena di sottolineare che si tratta della propria vita,
non di quella altrui che in linea di principio è e rimane
indisponibile: anche questo supremo criterio non è senza eccezioni,
potendo lo stato domandare per motivi di difesa e di solidarietà
sociale il sacrificio della vita dei cittadini in vista del bene
comune, come accade nelle guerre presumibilmente giuste. In Italia vi
sono culture che sostengono che la propria vita è sotto certe
condizioni disponibile per il soggetto, ed altre che viceversa
ritengono che la propria vita sia un bene del tutto indisponibile e
che addirittura la nostra Carta costituzionale abbia stabilito una
volta per tutte tale indisponibilità.
I sostenitori della prima posizione dicono ‘la vita è mia e la gestisco io’, un’affermazione diversa da quella che dice ‘l’utero è mio e lo gestisco io’, poiché nell’utero ci può essere un altro che non sono io. Al contrario la seconda posizione ritiene che il soggetto non abbia diritto a decidere sulla propria vita: non spetterebbe alla persona stabilire alcunché sulla fine della propria vita, né sussisterebbe un diritto ad essere ascoltato in merito. La prima tesi è in genere diffusa tra la cultura laica e liberale, l’altra sembra oggi prevalente nella cultura cattolica e cerca ultimamente di imporsi come indiscutibile attraverso una martellante ripetitività.
Su questi temi rifiuto il termine ‘testamento biologico’, infelice tanto dal lato del sostantivo poiché la vita non è un bene patrimoniale cui solo si applica il concetto di testamento, quanto dal lato dell’aggettivo in quanto la vita umana eccede l’elemento biologico. La disponibilità/indisponibilità della propria vita non va commisurata con lo status di un bene patrimoniale, ma di quel supremo ‘bene vita’ che rimane misterioso nonostante le invasioni della tecnologia e in cui è legittimo ascoltare la volontà del singolo, poiché non si tratta di un bene esclusivamente biologico ma spirituale e personalistico. Naturalmente in questa determinazione entra in maniera forte il rapporto della persona con la trascendenza: una prospettiva religiosa valorizza di primo acchito il rapporto dialogico con Dio entro cui viene considerata la propria vita. Viceversa una prospettiva religiosamente agnostica non possiede un’alterità trascendente con cui entrare in rapporto: la partita si gioca nella volontà del soggetto all’interno di un rapporto ‘orizzontale’ con se stessi e i simili.
I sostenitori della prima posizione dicono ‘la vita è mia e la gestisco io’, un’affermazione diversa da quella che dice ‘l’utero è mio e lo gestisco io’, poiché nell’utero ci può essere un altro che non sono io. Al contrario la seconda posizione ritiene che il soggetto non abbia diritto a decidere sulla propria vita: non spetterebbe alla persona stabilire alcunché sulla fine della propria vita, né sussisterebbe un diritto ad essere ascoltato in merito. La prima tesi è in genere diffusa tra la cultura laica e liberale, l’altra sembra oggi prevalente nella cultura cattolica e cerca ultimamente di imporsi come indiscutibile attraverso una martellante ripetitività.
Su questi temi rifiuto il termine ‘testamento biologico’, infelice tanto dal lato del sostantivo poiché la vita non è un bene patrimoniale cui solo si applica il concetto di testamento, quanto dal lato dell’aggettivo in quanto la vita umana eccede l’elemento biologico. La disponibilità/indisponibilità della propria vita non va commisurata con lo status di un bene patrimoniale, ma di quel supremo ‘bene vita’ che rimane misterioso nonostante le invasioni della tecnologia e in cui è legittimo ascoltare la volontà del singolo, poiché non si tratta di un bene esclusivamente biologico ma spirituale e personalistico. Naturalmente in questa determinazione entra in maniera forte il rapporto della persona con la trascendenza: una prospettiva religiosa valorizza di primo acchito il rapporto dialogico con Dio entro cui viene considerata la propria vita. Viceversa una prospettiva religiosamente agnostica non possiede un’alterità trascendente con cui entrare in rapporto: la partita si gioca nella volontà del soggetto all’interno di un rapporto ‘orizzontale’ con se stessi e i simili.
La
questione dell’autodeterminazione va
impostata in modo coerente con l’idea di persona e l’antropologia
del personalismo. Noi non siamo né il nostro genoma (tesi
biologistica e materialistica) e neppure siamo solo la nostra libertà
(tesi libertaria): siamo esseri dotati di anima intellettuale che
include in sé quella sensitiva e vegetativa, e l’anima è più che
la libertà.
La
vita umana e la persona umana hanno valore non soltanto in quanto
vita di un essere libero (di modo che sospesa la sua libertà la
persona non sarebbe più tale), né in quanto vita biologica, ma
appunto in quanto vita di un essere dotato di anima spirituale che è
compos sui. In tal senso spetta alla persona decidere, e non perché
– ripeto – l’affermazione dell’autodeterminazione dia fiato
ad un’antropologia libertaria (o la sua negazione ad
un’antropologia biologistica). Lo specifico personale sta nel
sinolo individuale e irripetibile tra anima e corpo, per cui la
persona è anima incorporata o corpo vivificato dall’anima.
Posizioni teologiche accreditate presentano la vita come un dono di Dio che a lui appartiene, di cui il soggetto non ha alcuna disponibilità. Deve allora trattarsi di un dono sui generis poiché ogni dono appartiene al donatario e non più al donante, per cui meglio sarebbe parlare della vita come bene dato in impiego responsabile al soggetto. Di fatto poi le considerazioni religiose a favore dell’assoluta indisponibilità della propria vita si muovono su un terreno etico-giuridico. Numerosi giuristi (cattolici) osservano che autodeterminarsi ha un valore, poiché la persona è dotata di libero arbitrio e padrona dei suoi propri atti, e che esiste un diritto costituzionale all’autodeterminazione – ad es. quello al rifiuto/rinuncia di trattamenti sanitari – ma che tale diritto ha dei limiti che conviene fissare. Naturalmente tutto si gioca sul modo con cui vengono fissati tali limiti. Non si può che concordare quando si chiede che nell’autodeterminarsi il soggetto non rechi danno agli altri, e quando si sostiene che ogni vita umana è sempre dotata di dignità. Per esemplificare, tale dignità è pari in Eluana in condizione di grave disabilità ed in me passabilmente sano: conseguentemente occorre prendersi cura di chi è fragile, non abbandonarlo. Ma il riconoscere la dignità della vita ferita da salvaguardare non contraddice la liceità di autodeterminarsi in vicende di fine vita e di cure salvavita, che appunto possono essere accolte o rifiutate. Ancor meno rilevante è l’argomento secondo cui l’autodeterminazione, nel caso in cui decida a favore del rifiuto/rinuncia a trattamenti salvavita, opera per indebolire socialmente il diritto alla cura. Questo atteggiamento non lede il diritto del malato che intenda essere curato sino all’estremo limite del possibile e ricorrendo a tutte le risorse del sistema sanitario e della tecnologia medica. In realtà il dovere di cura dello stato rimane intatto e parimenti il diritto del malato di non essere lasciato solo e di venire consolato.
Posizioni teologiche accreditate presentano la vita come un dono di Dio che a lui appartiene, di cui il soggetto non ha alcuna disponibilità. Deve allora trattarsi di un dono sui generis poiché ogni dono appartiene al donatario e non più al donante, per cui meglio sarebbe parlare della vita come bene dato in impiego responsabile al soggetto. Di fatto poi le considerazioni religiose a favore dell’assoluta indisponibilità della propria vita si muovono su un terreno etico-giuridico. Numerosi giuristi (cattolici) osservano che autodeterminarsi ha un valore, poiché la persona è dotata di libero arbitrio e padrona dei suoi propri atti, e che esiste un diritto costituzionale all’autodeterminazione – ad es. quello al rifiuto/rinuncia di trattamenti sanitari – ma che tale diritto ha dei limiti che conviene fissare. Naturalmente tutto si gioca sul modo con cui vengono fissati tali limiti. Non si può che concordare quando si chiede che nell’autodeterminarsi il soggetto non rechi danno agli altri, e quando si sostiene che ogni vita umana è sempre dotata di dignità. Per esemplificare, tale dignità è pari in Eluana in condizione di grave disabilità ed in me passabilmente sano: conseguentemente occorre prendersi cura di chi è fragile, non abbandonarlo. Ma il riconoscere la dignità della vita ferita da salvaguardare non contraddice la liceità di autodeterminarsi in vicende di fine vita e di cure salvavita, che appunto possono essere accolte o rifiutate. Ancor meno rilevante è l’argomento secondo cui l’autodeterminazione, nel caso in cui decida a favore del rifiuto/rinuncia a trattamenti salvavita, opera per indebolire socialmente il diritto alla cura. Questo atteggiamento non lede il diritto del malato che intenda essere curato sino all’estremo limite del possibile e ricorrendo a tutte le risorse del sistema sanitario e della tecnologia medica. In realtà il dovere di cura dello stato rimane intatto e parimenti il diritto del malato di non essere lasciato solo e di venire consolato.
Ripetere
che la propria vita è totalmente indisponibile non
fa avanzare il problema ma blocca una saggia ricerca di soluzione. Il
blocco dipende dal fatto che sul piano razionale il criterio di
un’assoluta indisponibilità della propria vita non è fondato.
Diverso appare il discorso della fede che non possiamo dare per
valido in modo cogente per tutti. Notevole per la sua implausibilità
appare poi l’assunto che l’indisponibilità della propria vita
sarebbe un chiaro dettato della nostra Carta. E’ lecito nutrire
molti dubbi sull’assunto. Forse si può ricordare per affinità che
la nostra Carta lascia il suicidio in un’area non rilevante
costituzionalmente. Pertinente è invece il dettato dell’art. 32:
“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in
nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana”. In tal senso la legge non potrà rendere legale
l’eutanasia, che contraddice la dignità della persona, ma potrà
rispettare chiare indicazioni di trattamento.
Rimane
comunque aperto l’interrogativo sull’accertamento
della reale volontà del paziente. Problema difficile che sposta la
questione da una controversia sul criterio della
disponibilità/indisponibilità della vita alla questione di come
effettivamente verificare quale reale volontà di cura o non cura sia
stata emessa dal soggetto. La difficoltà è multipla: non solo
quella di accertare che cosa ha veramente chiesto in modo documentato
e obiettivo il soggetto in passato, ma quale sarebbe attualmente la
sua volontà se potesse esprimersi ora, e quale valore si dovrebbe
dare alla volontà espressa nella situazione presente, dato che la
volontà in situazione può essere alterata da paura, angoscia,
sofferenza, ritorno del desiderio di vivere.
2)
Il secondo interrogativo riguarda il delicatissimo rapporto tra
Persona e Tecnica. Reputo necessario integrare l’art. 3 della
Dichiarazione universale sul diritto alla vita con l’aggiunta: “dal
concepimento alla morte naturale”. Poi mi interrogo: che cosa
significa oggi morte naturale? Non sta la Tecnica mutando la morte
naturale in morte artificiale? Un tema urgente da pensare e poco
approfondito anche da parte di vedette di vario genere. Ci troviamo
spiazzati perché esiste una sottovalutazione della sfida posta dalla
Tecnica alla Persona. La Tecnica rischia di diventare la nostra
signora e padrona, quella che ci detta che cosa dobbiamo pensare e
operare, quello che dobbiamo osare, quello che è obbligatorio fare o
non fare; insomma la Tecnica come la nostra guida più vera e sicura,
quella che ci offrirà salute, immortalità corporea e saggezza. Essa
ci offrirà la Vera Vita quaggiù, al posto dell’aldilà celeste
sperato e atteso. Sotto la sua guida nulla ci è risparmiato, neppure
l’idea che occorra dilazionare senza fine il morire in attesa che
la scienza inventi nuove tecniche di rivitalizzazione. Sembra che il
vivere indefinitamente quaggiù sia diventato il bene supremo.
Una fiducia così larga è mal riposta, perché la tecnica è aperta sui contrari, può essere usata per il bene e per il male (lo insegnava già Aristotele). Non è di per sé né solo benefica né solo malefica. Essa cura ed essa uccide; mantiene la vita e la toglie. Sulla questione della tecnica l’attuale posizione della chiesa, o forse meglio di uomini di chiesa, non è esente da distonie. Si nutre una più che giustificata perplessità sulla tecnologizzazione delle fasi dell’inizio della vita, esprimendosi con ottimi motivi contro la manipolazione dell’embrione, la sua clonazione per qualsiasi scopo, il prelievo di cellule staminali embrionali, ma poi ci si affida troppo alla tecnica e alla macchina nelle fasi terminali, interferendo profondamente col processo naturale del morire. La macchina non può sostituirsi al Creatore né nella fase iniziale né in quella terminale della vita. Che senso ha una Peg inflitta ad un malato terminale in agonia per nutrirlo a forza? Negli hospice ai malati terminali di cancro nutrizione e idratazione possono essere sospese onde evitare un inutile prolungamento di un’agonia dall’esito comunque segnato.
Una fiducia così larga è mal riposta, perché la tecnica è aperta sui contrari, può essere usata per il bene e per il male (lo insegnava già Aristotele). Non è di per sé né solo benefica né solo malefica. Essa cura ed essa uccide; mantiene la vita e la toglie. Sulla questione della tecnica l’attuale posizione della chiesa, o forse meglio di uomini di chiesa, non è esente da distonie. Si nutre una più che giustificata perplessità sulla tecnologizzazione delle fasi dell’inizio della vita, esprimendosi con ottimi motivi contro la manipolazione dell’embrione, la sua clonazione per qualsiasi scopo, il prelievo di cellule staminali embrionali, ma poi ci si affida troppo alla tecnica e alla macchina nelle fasi terminali, interferendo profondamente col processo naturale del morire. La macchina non può sostituirsi al Creatore né nella fase iniziale né in quella terminale della vita. Che senso ha una Peg inflitta ad un malato terminale in agonia per nutrirlo a forza? Negli hospice ai malati terminali di cancro nutrizione e idratazione possono essere sospese onde evitare un inutile prolungamento di un’agonia dall’esito comunque segnato.
Per
rappresentarci la situazione dobbiamo
tener presente che non pochi casi di coma vegetativo persistente sono
l’effetto – inintenzionale ma realissimo – delle metodologie
sempre più perfezionate e accanite di rianimazione e di terapie
intensive, che non riescono a guarire ma solo a mantenere in vita.
Questo elemento è ignorato da posizioni tese a riaffermare con toni
vibranti l’assoluta indisponibilità della propria vita. In tal
modo ci si pone in uno spazio di falsa sicurezza, che solleva dalla
fatica di considerare le inedite possibilità di vita e di morte cui
le nuove tecniche ci conducono. Neppure si considera che l’equipe
medica che tenta il tutto per tutto per trattenere a qualunque costo,
può operare un atto di maleficenza invece che di beneficenza verso
il malato.
3)
Anche il terzo punto è connesso al problema Tecnica. Non
sussiste alcun dovere/obbligo assoluto di curare e di curarsi a
qualsiasi costo, in particolare quando l’invasività crescente
delle tecnologie mediche nella sfera corporea della persona travalica
ogni forma di rispetto dovutole, e si fonde con una concezione
accanitamente tecnologizzata della vita e della morte che viola i
limiti imposti dalla dignità della persona umana. La disattenzione
in merito proviene dal timore che ogni minima apertura sul
rifiuto/rinuncia ai trattamenti sanitari aprirebbe la strada a prassi
eutanasiche, indubbiamente da scongiurare. La depenalizzazione
dell’eutanasia costituirebbe una tragedia non inferiore alla
depenalizzazione e legalizzazione dell’aborto. Tuttavia chiarezza
vuole che “diritto di morire” e “diritto al rifiuto/rinuncia a
trattamenti sanitari” siano cose diversissime. Il “diritto di
morire” è un falso diritto o un diritto che non sussiste, non
perché sia contraddittorio ma in quanto è qualcosa che non è
dovuto alla persona. Anche per questo non fa parte dell’elenco
comunemente riconosciuto dei diritti umani. Ogni autentico diritto dà
voce a quanto è dovuto al soggetto umano, esprime il suum che gli
altri sono tenuti a riconoscergli. Alla base di ogni diritto non vi è
la mera vita biologica, ma la natura umana e la persona umana. Se non
esiste un diritto di morire, è ragionevole invece riconoscere al
soggetto una sfera di autonomia nel modo di affrontare la morte in
maniera naturale e non come un combattimento all’ultimo sangue. Se
la morte è il massimo limite umano che va riconosciuto,
l’interruzione del trattamento non vale come rifiuto della vita ma
come accettazione del limite naturale ad essa inerente. Non si
rinuncia alla vita, non si rifiuta la vita, ma si accetta di non
potere impedire la morte o di non doverla ulteriormente
procrastinare.
Naturalmente occorre prendere le distanze dall’abbandono terapeutico con tutte le sue tristi occorrenze, che tuttavia forse sono meno frequenti dei casi di accanimento terapeutico, cui spinge la medicina tecnologizzata. Più negativo dell’abbandono terapeutico è l’abbandono dell’accompagnamento, ossia la presenza di troppe macchine e di poche persone nell’itinerario di cura del malato che può sentirsi terribilmente solo.
Concludo. Non sussiste un diritto di morire, ma un diritto di rifiutare cure e terapie invasive, avvertite come particolarmente onerose, degradanti, anche se dall’esercizio di tale diritto scaturisse la morte. E’ sempre stato difficile, e particolarmente oggi, stabilire quando c’è o non c’è accanimento terapeutico, che purtroppo è come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, che cosa sia nessun lo sa. Da tale obiettiva difficoltà dovrebbero trarsi ulteriori argomenti a favore dell’espressione della volontà del paziente. E’ lui che deve dire quando la misura è colma.
Dall’insieme di queste considerazioni si ricava che il Parlamento ha dinanzi un compito immane e onorabile con estrema difficoltà nel preparare una legge sulla fine della vita. Una legge che non potrà che essere molto succinta e lasciare adeguato spazio all’interpretazione saggia e alla casistica concreta, affidata in ultima analisi al rapporto medico-paziente ed alle indicazioni anticipate di trattamento. Dell’estrema delicatezza del problema è segno il fatto che esso si trascina senza soluzione da diverse legislature.
Naturalmente occorre prendere le distanze dall’abbandono terapeutico con tutte le sue tristi occorrenze, che tuttavia forse sono meno frequenti dei casi di accanimento terapeutico, cui spinge la medicina tecnologizzata. Più negativo dell’abbandono terapeutico è l’abbandono dell’accompagnamento, ossia la presenza di troppe macchine e di poche persone nell’itinerario di cura del malato che può sentirsi terribilmente solo.
Concludo. Non sussiste un diritto di morire, ma un diritto di rifiutare cure e terapie invasive, avvertite come particolarmente onerose, degradanti, anche se dall’esercizio di tale diritto scaturisse la morte. E’ sempre stato difficile, e particolarmente oggi, stabilire quando c’è o non c’è accanimento terapeutico, che purtroppo è come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, che cosa sia nessun lo sa. Da tale obiettiva difficoltà dovrebbero trarsi ulteriori argomenti a favore dell’espressione della volontà del paziente. E’ lui che deve dire quando la misura è colma.
Dall’insieme di queste considerazioni si ricava che il Parlamento ha dinanzi un compito immane e onorabile con estrema difficoltà nel preparare una legge sulla fine della vita. Una legge che non potrà che essere molto succinta e lasciare adeguato spazio all’interpretazione saggia e alla casistica concreta, affidata in ultima analisi al rapporto medico-paziente ed alle indicazioni anticipate di trattamento. Dell’estrema delicatezza del problema è segno il fatto che esso si trascina senza soluzione da diverse legislature.
Vittorio Possenti(2008)
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