di
Jean Rigal
in
“vatican2milledouze.org” del 25 gennaio 2013 (traduzione:
www.finesettimana.org)
Il
titolo è interrogativo. Eppure, che cosa c'è di più normale di un
concilio incompiuto, se si
considera
che è, insieme, un punto di arrivo e un punto di partenza. Il
Vaticano II resta incompiuto
su
due piani: rispetto al suo insegnamento e rispetto alla sua
applicazione.
1.
A proposito all'insegnamento del concilio.
È
risaputo che l'insegnamento del Vaticano II soffre di un problema di
articolazione tra diverse componenti della struttura della Chiesa. Si
pensi alla nozione di “popolo di Dio” e al suo rapporto con la
Chiesa gerarchica, all'articolazione “primato-collegialità
episcopale”, al rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali, al
posto dei “ministeri di laici” nella missione della Chiesa (cf.
la costituzione Lumen Gentium).
Nelle
critiche correntemente formulate, la mancanza di collegialità arriva
al primissimo posto La preoccupazione del Vaticano II – almeno per
la maggioranza dei padri conciliari – consisteva nel riequilibrare
i poteri spettanti al papa e quelli spettanti ai vescovi.
Incontestabilmente, il concilioaprirà una breccia nel dispositivo
incredibilmente monarchico del secondo millennio. La minoranza temeva
che il riconoscimento della collegialità dell'episcopato giungesse a
ledere l'autorità del vescovo di Roma. Alla fine, il Vaticano II
afferma e proclama la collegialità episcopale con termini
inequivocabili. È un'apertura importante.
Tuttavia,
il testo, visibilmente sovraccaricato da aggiunte, resta troppo
impregnato dello spirito del Vaticano I. Si sovrappongono due visioni
ecclesiologiche: una, giuridica e piramidale, con il pontefice romano
a capo della Chiesa (e non solo del Collegio episcopale), e l'altra
più centrata sulla Chiesa-comunione, dove si esprime la
complementarietà dei ministeri e dei carismi. È utile ricordare che
papa Paolo VI, che ha presieduto tre sessioni del concilio, era
ossessionato dalla ricerca della massima unanimità possibile su
tutti i testi conciliari.
Queste
difficoltà di articolazione comportano conseguenze istituzionali. Il
Vaticano II giustificherà un doppio potere supremo nella Chiesa: da
una parte, quello del Collegio dei vescovi in comunione con il
vescovo di Roma, e, dall'altra parte, quello del capo del Collegio
episcopale, potere che il papa “può sempre esercitare
liberamente”. Le cose andrebbero diversamente se la collegialità
episcopale fosse chiaramente fondata sulla collegialità di tutta la
Chiesa. Ma non è così.
Un
altro documento, molto importante, deve attirare la nostra
attenzione. “La Chiesa nel mondo di oggi” (Gaudium et Spes).
Questo testo si oppone vigorosamente alla concezione di una Chiesa
ripiegata su se stessa, dottrinale, arrogante, autosufficiente. La
comunità dei cristiani si rivolge con simpatia verso il mondo di
oggi per conoscerlo ed entrare in mutuo dialogo con lui. Si tratta
davvero di un documento importante del concilio che apre ampie
prospettive. Ma, necessariamente, richiede una riattualizzazione (il
mondo evolve a grande velocità) ed impone lo studio di problemi
totalmente nuovi: ad esempio la globalizzazione, la bioetica, lo
sviluppo della tecnologia, la crescita demografica, la salvaguardia
dell'ambiente, ecc.
2.
A proposito all'applicazione del concilio
Il
concilio è anche un punto di partenza. La sua ricezione non è
completata. Dovremmo forse dire che è appena cominciata?
Oggi,
sono spesso denunciati gli eccessi di centralismo romano. Riguardano
i sinodi dei vescovi che si riuniscono a Roma ogni tre anni. Un
esempio recente: il sinodo dell'ottobre 2008, sulla “Parola di
Dio”. Nella sua esortazione apostolica, Benedetto XVI non riprende
il desiderio esplicito dei vescovi affinché di stabilisca per le
donne “il ministero istituito di lettore” (proposizione 17). È
la sola riforma istituzionale proposta dal sinodo. È stata
deliberatamente scartata. Questo era già
avvenuto
a proposito dei divorziati risposati a conclusione del sinodo dei
vescovi del 1980. I suggerimenti affinché ci si ispirasse alla
pratica delle Chiese ortodosse non sono state accolte da Giovanni
Paolo II.
Risalendo
indietro nel tempo, si constata che i grandi problemi posti a livello
della Chiesa
universale
sono trattati e risolti dall'autorità romana. Il cardinal Quinn, ex
presidente della
Conferenza
episcopale americana, dichiarava: “La Curia romana si considera
subordinata al papa, ma superiore al Collegio dei vescovi”. Non
stupisce, in queste condizioni, che la Curia tema soprattutto la
riunione di un Concilio in cui i vescovi trovino temporaneamente il
pieno esercizio della collegialità.
Nella
linea della priorità data alla comunità ecclesiale, o al “noi”
dei battezzati, nella Chiesa
cattolica
si è fortemente sviluppato il regime della consultazione. I consigli
e le équipe pastorali, i consigli economici, le cappellanie ed altre
responsabilità esercitate da laici si sono moltiplicate nel corso
degli ultimi decenni. Ci si può solo rallegrare di questo. La
ricerca deve proseguire affinché ciascuno vi trovi il proprio posto,
nel mutuo riconoscimento delle funzioni e dei carismi.
Infine,
nello spirito della Costituzione “Gaudium et Spes”, un lavoro
immenso resta da
intraprendere
o da proseguire in rapporto alle “mutazioni culturali” che
scuotono la nostra società.
O
il vangelo raggiungerà il mondo di oggi, così com'è, per
illuminarlo, interrogarlo, stimolarlo, o resterà senza voce.
L'indomani
del Vaticano II, padre Congar dichiarava: “Il lavoro realizzato è
fantastico. Eppure, tutto resta da fare”.
Commenti