È sotto gli occhi di
tutti il moltiplicarsi delle situazioni "irregolari" dovute alla
fragilità di coppia. Sono auspicabili percorsi specifici però nella pastorale
parrocchiale "ordinaria".
«Penso
a Sara, sposata da tanto tempo con due figli adolescenti. Vorrebbe fuggire da
quel marito che non la considera più. I litigi si fanno sempre più furiosi. Le
parole devastanti. Sostiene di rimanere unicamente per i figli; sente,
tuttavia, che la serenità familiare è sempre più compromessa. Parla del suo
matrimonio come di un errore, un peso da sopportare, una colpa da espiare. E
intanto gli anni passano. La conosco da cinque anni e la situazione non si è
ancora sbloccata. Quando suo marito vive un'altra storia - e questo avviene
periodicamente, ormai - lei sembra tirare il fiato, invece che dispiacersene.
Mi racconta che lui appare più sereno, diventa meno ombroso, meno rancoroso e
aggressivo, a tratti persino gentile con lei». Questa è una della tante
esperienze vissute da Lidia Maggi, pastora della chiesa battista di Varese: si
tratta di incontri con persone che raccontano"ferite d'amore", ma
raramente vogliono sentirsi dire che cosa fare.
Testimonianze concrete
di coppie che hanno vissuto e vivono la difficile situazione di
"ricominciare" un amore sono raccontate nel volume, curato da Luigi
Ghia, dal titolo Se un amore muore. La chiesa e i cristiani divorziati,
pubblicato di recente dall'editrice Monti. Il testo si inserisce sulla scia della
lettera che il card. Tettamanzi ha scritto tempo fa per assicurare l'attenzione
che la chiesa nutre, in modo nuovo e profondo, nei confronti dei
"cristiani divorziati". In queste pagine si affrontano i diversi
ambiti della questione con esperti di vari campi: sociologia, Scrittura,
diritto canonico, teologia, filosofia, ecclesiologia e pastorale.
La fragilità sempre più
estesa dei rapporti affettivi e la sofferenza delle persone coinvolte
costringono a prendere atto del fallimento di un progetto «sul quale la coppia
aveva investito non solo sul piano materiale, ma anche, e soprattutto, sul
piano emotivo». Da qui la difficoltà dell'elaborazione di questo
"lutto" a fronte del crollo dell'unione familiare, ma anche,
dall'altro lato, il forte desiderio da parte delle coppie di
"ripartire", pur nella consapevolezza dolorosa che il primo
fallimento lascia un segno indelebile nella propria vita.
Alcuni interrogativi
determinanti. Lidia Maggi rilancia alcuni interrogativi che mettono in gioco la
qualità della fede e della vita nel contesto di un amore segnato dalla
fragilità: «Come si distingue un amore malato da una relazione ormai morta? In
nome di quale Dio imprigioniamo una coppia nel proprio errore? O la induciamo
con troppa leggerezza a mettere fine al legame coniugale? E ancora: la fede si
traduce necessariamente nel giudicare gli amori spezzati e nel condannare le
persone che osano ricostruirsi un'esistenza passando attraverso la
separazione?».
Dal momento che le
nostre chiese sono abitate da molte persone separate, divorziate, risposate,
conviventi, occorre chiedersi: «Fino a quando negheremo questa realtà per
difendere un principio di cui alcune persone non riescono a fare esperienza? Si
può chiedere a una coppia di rimanere assieme quando viene meno la stima
reciproca e il matrimonio si rivela prigione?». Secondo la pastora battista,
«chi sostiene che separarsi sia una scelta di comodo, un modo immaturo di
affrontare le difficoltà, forse non si è seriamente messo in ascolto di storie
concrete». Occorre ribadire che, «per elaborare un fallimento, bisogna
guardarlo in faccia, evitare ogni processo di rimozione, assumersi le proprie
responsabilità», dal momento che, «se davvero la fine di un amore rappresenta
un fallimento serio, gravissimo, non sono permesse scorciatoie».
In fondo, chi si apre ad
un nuovo amore è la stessa persona che ha sbagliato: ecco perché la possibile
ripresa domanda il desiderio di capire che cosa abbia condotto al fallimento.
«Solo così la "seconda volta" sarà esperienza di risurrezione»:
quindi, non aiuta una chiesa che «condanna la separazione, senza offrire
percorsi di elaborazione del lutto e autentiche forme di perdono, capaci di
guarire chi ha fallito».
Una
"conversione" alla carità pastorale. Sul versante della prassi
attuale della chiesa si muove il contributo di don Sergio Nicolli, il quale
sottolinea che «il diffondersi delle situazioni familiari
"irregolari" - soprattutto della convivenza al di fuori del
matrimonio e di un nuovo matrimonio dopo il fallimento del primo - produce,
anche negli ambienti cristiani, una sorta di assuefazione, che tende a far
accettare il dato di fatto come un'evoluzione sociale ineluttabile»: tale
situazione può indurre «ad abbassare l'obiettivo, ad annacquare il progetto
cristiano sul matrimonio e sulla famiglia».
Ecco perché - ribadisce
mons. Nicolli - «l'obiettivo va mantenuto alto: anche oggi l'amore, fin dal suo
nascere, domanda istintivamente stabilità». Oggi ancora di più «la presenza
nelle nostre comunità di tante persone separate, divorziate o risposate domanda
un'attenzione pastorale non minore di quanto richieda l'accompagnamento dei
fidanzati o dei giovani sposi».
Da qui la necessità che
nella chiesa «si formino delle comunità fatte di uomini e donne accoglienti,
attenti alle persone»: tale prassi potrebbe essere definita "conversione
alla carità pastorale".
Mons. Nicolli formula
alcune proposte concrete: occorre educare la comunità e i singoli all'ascolto
"con il cuore" per capire cosa c'è nel "cuore" dell'altro;
è fondamentale una "conversione di mentalità" nei confronti della
crisi di coppia per saperla leggere come un'occasione di crescita; è importante
"formare" persone (laici e sposi) e mettere in atto
"strutture" capaci di accogliere e accompagnare le coppie in
difficoltà; è necessaria una formazione adeguata dei presbiteri, che li prepari
a capire i problemi della relazione di coppia e della vita familiare; si tratta
di avviare dei "gruppi specifici" a sostegno delle persone separate o
divorziate; infine, occorre capire se ci possono essere le condizioni per un
"riconoscimento" di nullità del matrimonio.
A detta di don Nicolli,
«un'adeguata risposta pastorale e un'eventuale soluzione del problema non
potranno mai prescindere dalla fatica dell'ascolto, del discernimento,
dell'accompagnamento personale: solo attraverso questa fatica le persone
potranno ritrovare la comunione con Dio e sentirsi avvolte dall'affetto e dalla
premura della comunità».
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