di
José Oscar Beozzo
La
conferenza di Medellín nel 1968 - tre anni dopo il Concilio - ha
avuto un impatto enorme non solo in America Latina ma in tutto il
mondo. Dal documento finale dell’episcopato si evince un coraggio
profetico che riassume il meglio del Concilio e che trova terreno
fertile in questi luoghi. L'ingiustizia sociale e l’oppressione,
che devastavano il continente latino-americano, prevalentemente
cattolico, dal Messico al Rio Grande fino all’estremo sud, sono
emerse con forza nel dibattito e nelle conclusioni di questa
conferenza, risultando una ventata di novità nel modo di concepire
l'evangelizzazione, la pastorale e la teologia.
Nel
documento Medellín, pertanto, si nota che alla parte povera della
popolazione era già stato dato un ruolo centrale in quanto i vescovi
avevano constatato che essa rappresentava la stragrande maggioranza
della Chiesa latino-americana. E ciò avrebbe recato con sé
conseguenze serie e inevitabili per il laicato. I laici impegnati con
l'Azione cattolica brasiliana e le Comunità Ecclesiali di base,
ancora in fase embrionale di esistenza e di identificazione da parte
della gerarchia della Chiesa, sono stati i catalizzatori che hanno
consentito lo stabilirsi delle tre basi principali della II
Conferenza dei vescovi latino-americani: pensare la Pastorale dal
punto di vista della giustizia sociale; intraprendere un nuovo modo
di fare teologia, partendo dalla realtà ingiusta e conflittuale; il
collegamento ed unione tra le comunità attorno alla Parola di Dio e
ai fatti della vitai.
È quindi un nuovo profilo del laicato che si rende visibile agli
occhi della Chiesa del continente. Si tratta di un laicato non più
proveniente dalle chiese e dalle sedi ecclesiastiche, ma di uno nato
ed aggregato nei punti più remoti e poveri di tutta l’America al
Sud dell’Equatore. Un laicato che collega indissolubilmente il
proprio impegno cristiano con la trasformazione della realtà.
Nel documento di Medellín,
pertanto, non si legge il bisogno da parte dei vescovi
latino-americani di ripetere in ogni momento quale sia il ruolo dei
laici, la loro identità e la loro missione. Nel dedicarsi al popolo
latino-americano emarginato e nel mettere i poveri al centro delle
sue preoccupazioni, la Chiesa dichiara già che l'oggetto centrale
della sua Pastorale sono i cristiani battezzati che trascorrono la
loro sofferente vita quotidiana ispirati dalla fede e in base ad essa
lottano per un futuro migliore, non solo per sé stessi, ma per tutti
i popoli e le nazioni. Laici cristiani, dunque, in cui la Chiesa si
rispecchia.
Medellín,
coraggiosamente, si esprime affinché siano costituiti gruppi
apostolici in luoghi o strutture operative, “soprattutto in quelle
strutture dove si elabora e si decide il processo di liberazione e
umanizzazione della società alla quale appartengono, dotandoli di
una struttura adeguata e di una pedagogia basata sul discernimento
dei segni dei tempi, nel cuore degli avvenimenti”ii.
Con grande audacia e lungimiranza, il documento aggiunge: "I
gruppi o movimenti che già esistono per portare avanti questi
compiti devono essere fermamente sostenuti, e i loro militanti non
devono essere abbandonati quando, per via delle implicazioni sociali
del Vangeloiii,
sono soggetti a compromessi e conseguenze dolorose.
Medellín
purtroppo ha confermato con profetiche parole quanto è poi accaduto
a molti paesi dell'America Latina. Un gran numero di militanti laici
cristiani, più concretamente coinvolti nell'Azione Cattolica, ma
anche in altri movimenti ecclesiali, è andato incontro a tortura,
prigione e morte a causa della concretezza e della radicalità del
loro impegno volto al mutamento della realtà presente. In alcuni
casi, questi giovani laici, che rischiavano la propria vita in linea
col loro impegno cristiano, hanno riscontrato soltanto un timido
sostegno da parte della gerarchia ecclesiale. In altri, invece,
particolarmente in Brasile, il sostegno della stessa gerarchia è
stato sentito con coraggio e trasparenza, tanto che in un
determinato momento della storia recente del paese, dal 1968 fino al
1980, i vescovi erano gli unici ad alzare la voce attraverso i media
in difesa dei diritti umani.
Il
laicato ha sentito, in questi momenti, le dure conseguenze
dell’impegno per il Vangelo, come era già stato menzionato nel
documento di Medellín. Tuttavia gli ostacoli non hanno diminuito la
coerenza della lotta della Chiesa nel suo insieme verso il
consolidamento dei processi
iniziati. La Conferenza di Puebla, undici anni dopo, ha confermato
tutto ciò.
UNA CHIESA CON UN PROPRIO VOLTO
Con il passare del tempo, è cresciuta la consapevolezza che a Medellín è stato redatto l’atto di nascita della Chiesa latino-americana e caraibica, con un proprio volto e protagonismo ecclesiale, piena di significato per se stessa, ma anche per le chiese sorelle degli altri continenti, per la chiesa particolare di Roma e per il cammino di altre chiese cristiane. Medellín ebbe inoltre un grande impatto sulla vita dei cristiani comuni, delle loro comunità e azioni pastorali, e sul panorama politico e sociale del continente.
Con il passare del tempo, è cresciuta la consapevolezza che a Medellín è stato redatto l’atto di nascita della Chiesa latino-americana e caraibica, con un proprio volto e protagonismo ecclesiale, piena di significato per se stessa, ma anche per le chiese sorelle degli altri continenti, per la chiesa particolare di Roma e per il cammino di altre chiese cristiane. Medellín ebbe inoltre un grande impatto sulla vita dei cristiani comuni, delle loro comunità e azioni pastorali, e sul panorama politico e sociale del continente.
Ci proponiamo di sottolineare alcuni aspetti di Medellín che hanno tuttora validità ed influenza; di esaminare la sua relazione con le successive conferenze generali dell’episcopato latino-americano e caraibico, Puebla (1979), Santo Domingo (1992) e, in modo particolare, Aparecida (2007), cercando di identificare le nuove sfide presentate dalla realtà in trasformazione, del continente, del mondo e della chiesa.
Possiamo dire che, in termini generali, Medellín ebbe davanti agli occhi la drammatica realtà dell’America latina e dei Caraibi e la mise a confronto con l’evento e i documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), sviluppando una ricezione conciliare, nello stesso tempo, fedele e creativa, selettiva e innovativa.
Ascoltare il grido dei poveri, come interpellazione evangelica, compromettersi insieme a loro ed agire, per trasformare la chiesa e il mondo, fu l’ispirazione che animò l’assemblea di Medellín:
«Non basta riflettere, ottenere maggiore chiarezza e parlare. E’ necessario agire. Questa non ha cessato di essere l’ora della parola, ma è diventata, con drammatica urgenza, l’ora dell’azione» (2).
NELLA EVANGELII NUNTIANDI, UN RICONOSCIMENTO UNIVERSALE DELLA LIBERAZIONE
Sei anni dopo, Medellín ottenne riconoscimenti di universalità nel Sinodo sulla evangelizzazione (1974). LaEvangelii Nuntiandi accolse le sue principali proposte, trasformandole in contributi per la Chiesa nel suo insieme, in modo particolare le sue insistenze sulla liberazione e sul legame tra evangelizzazione e promozione umana, tra sviluppo e liberazione:
«La Chiesa, hanno ripetuto i vescovi, ha il dovere di annunciare la liberazione di milioni di esseri umani, essendo molti di essi figli suoi; il dovere di aiutare questa liberazione a nascere, di testimoniare per essa, di fare sì che sia totale. Tutto ciò non è estraneo all’evangelizzazione» (EN 30).
«Tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo, liberazione - ci sono infatti dei legami profondi. Legami di ordine antropologico, perché l’uomo da evangelizzare non è un essere astratto, ma è condizionato dalle questioni sociali ed economiche. Legami di ordine teologico, poiché non si può dissociare il piano della creazione da quello della Redenzione che arriva fino alle situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere, e della giustizia da restaurare. Legami dell’ordine eminentemente evangelico, quale è quello della carità; come infatti proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, l’autentica crescita dell’uomo?» (EN31).
L’accettazione calorosa delle intuizioni di Medellín nella EN, si trasformò, dieci anni dopo, in una serie di sospetti e di avvertimenti nei confronti della pastorale e della teologia della Chiesa Latino-americana, nella «Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione», della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (Libertatis Nuntius: 06-08-1984). La decisa reazione della Conferenza Episcopale del Brasile alla visione unilaterale e marcatamente negativa della Istruzione, che lanciava una nube di sospetto sulla stessa Chiesa e sul suo episcopato; l’amarezza in Perù per le pressioni alla Chiesa locale perché censurasse il teologo Gustavo Gutierrez e il non conformismo nel Brasile, con il processo e il silenzio ossequioso imposti al teologo Leonardo Boff, sfociarono nel secondo documento che riscattava gli aspetti positivi del cammino ecclesiale e della riflessione teologica latino-americana: la «Istruzione sulla Libertà cristiana e la liberazione» (Libertatis conscientia: 22-03-1986). E si ebbe anche la convocazione a Roma ad una insolita riunione di dialogo tra il Papa accompagnato dai suoi collaboratori più diretti, e la presidenza della Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani, i presidenti delle sue diverse Regioni e i cardinali brasiliani, dal 13 al 15 marzo del 1986.
Dopo l’incontro, il Papa scrisse ai vescovi del Brasile dicendo: « [...] Siamo convinti, noi e voi, che la teologia della liberazione non è solo opportuna, ma utile e necessaria. Essa deve costituire una nuova tappa - in stretta connessione con quelle precedenti – di quella riflessione teologica iniziata con la Tradizione apostolica e continuata con i grandi Padri e Dottori, con il Magistero ordinario e straordinario e, nell’epoca più recente, con il ricco patrimonio della Dottrina sociale della Chiesa, espressa in documenti che vanno dalla Rerum Novarum alla Laborem Exercens»(3).
Il Papa, inoltre, affida all’Episcopato brasiliano il compito di accompagnare lo sviluppo della teologia della liberazione:
«Questa funzione, se svolta, sarà certamente un servizio che la Chiesa può offrire al Paese e al quasi-Continente latino-americano, nonché a molte altre regioni del mondo, nelle quali sono presenti, con analoga gravità, le stesse sfide. Per svolgere questa funzione è insostituibile l’azione saggia e coraggiosa dei pastori, cioè la Vostra. Dio vi aiuti perché quella giusta e necessaria teologia della liberazione si sviluppi in Brasile e nell’America Latina, in modo omogeneo e non eterogeneo in relazione alla teologia di tutti i tempi, in piena fedeltà alla dottrina della Chiesa, attenta ad un amore preferenziale e non escludente né esclusivo per i poveri» (4).
La crisi dell’eredità di Medellín e i suoi contorni più visibili quali sono state le due Istruzioni sulla Teologia della Liberazione e la Lettera del Papa all’Episcopato brasiliano, ebbero come risultato un riconoscimento più ampio e universale delle questioni ivi sollevate e delle risposte ecclesiali, pastorali e teologiche ivi avviate.
Bisogna pertanto riconoscere che la liberazione a Medellín era più vincolata agli aspetti economici e politici della realtà. Solo più tardi, altre dimensioni, quali le discriminazioni di carattere culturale, di genere, di razza e di colore, di orientamento sessuale, o le sfide che emergono dall’ambiente, ottennero maggiore attenzione nella riflessione teologica in chiave liberatrice. Oggi, le teologie eco-femministe, la teologia india, la teologia nera, la teologia dell’inculturazione e tutta una spiritualità liberatrice, rappresentano sviluppi importanti nel campo della riflessione che si riconosce erede della teologia che nasce da Medellín.
NEL METODO, IL SEGRETO DI MEDELLÍN
Il METODO, Vedere, Giudicare, Agire, ereditato dalla JOC (*) di Joseph Cardijn, si è ispirato anche alla teologia dei «segni dei tempi» della Gaudium et Spes, ed è stato il filo conduttore di tutti i lavori di Medellín. Il VEDERE occupa la prima parte di ciascuno dei documenti e l’AGIRE la parte finale, nella forma di piste pastorali.
Questo metodo seguito a Medellín e successivamente nella elaborazione della Teologia latino-americana della Liberazione, venne espressamente proibito dalla presidenza della IV Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano a Santo Domingo (1992) e vietato anche al Sinodo dell’America (1997).
Ad Aparecida (2007), tuttavia, i vescovi latino-americani vollero riprendere l’eredità di Medellín e giustificare la loro scelta:
«In continuità con le precedenti Conferenze Generali dell’Episcopato Latino-Americano, questo documento fa uso del metodo “vedere, giudicare ed agire”. [...] Molte volte, provenienti da tutto il Continente, abbiamo offerto contributi e suggerimenti in questo senso, affermando che questo metodo ha collaborato a che noi vivessimo più intensamente la nostra vocazione e missione nella Chiesa: ha arricchito il nostro lavoro teologico e pastorale, e, in generale, ci ha motivati ad assumere le nostre responsabilità di fronte alle situazioni concrete del nostro continente» (AP 19) (5).
NELLA GLOBALIZZAZIONE, IL PASSAGGIO DALL’OPPRESSIONE ALL’ESCLUSIONE
La lettura della realtà fatta a Medellín rimane contrassegnata dalla teoria della dipendenza che tentava di spiegare il sottosviluppo della maggioranza dei poveri, con il disuguale e asimmetrico sviluppo del nord e del sud del mondo e con nuove forme di colonialismo internazionale aggravate da colonialismi interni. Essa riflette, inoltre, l’impatto della presa di coscienza, da parte dei settori popolari, della secolare oppressione economica e dominazione politica responsabili della povertà e della miseria delle maggioranze. E riflette anche il risvegliarsi dei movimenti popolari nelle campagne e nelle città e la decisione della Chiesa di unirsi ad essi nelle loro lotte e rivendicazioni.
A Medellín, la Chiesa assume come compito pastorale:
«Incoraggiare e favorire tutti gli sforzi del popolo per creare e sviluppare le proprie organizzazioni di base, per la rivendicazione e consolidamento dei propri diritti e per la ricerca di una vera giustizia» (MED 2,27).
Se Medellín vedeva la radice delle disuguaglianze e dell’oppressione nello sfruttamento del lavoro e nei meccanismi ingiusti del commercio internazionale, questa lettura subisce l’impatto di importanti cambiamenti. Aparecida identifica nell’attuale modello di globalizzazione la causa principale delle ingiustizie e della nuove disuguaglianze: «[...] Nella globalizzazione, la dinamica del mercato assolutizza con facilità l’efficacia e la produttività come valori regolatori di tutte le relazioni umane. Questo carattere peculiare fa della globalizzazione un processo promotore di iniquità e ingiustizie molteplici» (AP 67).
Il documento di Aparecida prosegue:
«[...] Una globalizzazione senza solidarietà incide negativamente sui settori più poveri. Ormai non si tratta semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e oppressione, ma di qualcosa di nuovo: l’esclusione sociale. Con tale esclusione, l’appartenenza alla società nella quale si vive, rimane negata alla radice, perché ormai non [si] è in basso, alla periferia o senza potere, ma [si] è fuori. Gli esclusi non sono soltanto “sfruttati”, ma “superflui” e “scartati”» (AP 65).
LETTURA POPOLARE DELLA BIBBIA
A Medellín non c’è un documento specifico che riprenda la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio, ma la PAROLA DI DIO, restituita al popolo nei circoli biblici, nelle comunità ecclesiali di base e nel movimento di lettura popolare della Bibbia, stava nel cuore della rivoluzione provocata da Medellín. A questo contribuì, e molto, la generosa iniziativa della Comunità di Taizé in Francia che, dopo il Concilio, donò alle chiese dell’America Latina, maggiormente a quella cattolica, un milione di esemplari del Nuovo Testamento in spagnolo e un altro milione in portoghese, perché venissero distribuiti gratuitamente alle comunità più povere.
L’allora Cardinale Joseph Ratzinger, in un’intervista del 1995, vedeva nella lettura popolare della Bibbia, un importante contributo della Teologia della Liberazione latino-americana:
«L’esegesi ci ha dato qualcosa di molto positivo, ma ha anche fatto nascere l’impressione che l’uomo qualunque non possa leggere la Bibbia, perché troppo complicata. Dobbiamo imparare nuovamente che essa dice qualcosa a ognuno e che è stata donata proprio ai semplici. In questo, do ragione ad un movimento nato nell’ambito della teologia della liberazione che parla di interpretación popular. Secondo questa linea, il popolo è il vero proprietario della Bibbia e, perciò, il suo vero esegeta. Nella sostanza è vero che essa è stata data proprio ai semplici che non hanno bisogno di conoscere tutte le sfumature critiche, poiché comprendono l’essenziale, ciò di cui essa tratta. La teologia, con le sue grandi conoscenze, non diventerà superflua, diventerà, anzi, ancor più necessaria nel dialogo mondiale tra le culture. Ma essa non deve oscurare la semplicità ultima della fede, che ci pone semplicemente davanti a Dio, davanti a un Dio che si è fatto vicino a noi, diventando uomo» (6).
CELEBRARE NELLA GIOIA E IN MANIERA INCULTURATA
Nella sfera della LITURGIA, incentivando la celebrazione in piccoli gruppi e comunità, Medellín ottenne che fede e vita si incontrassero e che avvenimenti gioiosi e dolorosi trovassero la via della speranza pasquale. La ricerca di inculturazione è fiorita nell’incontro tra le culture locali del continente e la celebrazione liturgica sostenuta da una esplosione di musiche e cantici di radice popolare. L’esperienza pionieristica di Dom Mendes Arceo nella Cattedrale di Cuernavaca in Messico, con la messa animata al ritmo degli strumenti e melodie dei Mariachis, ha trovato nuove espressioni profondamente belle e dinamiche nel mondo centro-americano con la Messa Nicaraguese e la Messa Salvadoregna e più a sud con la Messa Creola in Argentina. In Brasile la Messa della Terra senza Mali, con poesie di Dom Pedro Casaldáliga e Pedro Tierra e musica del compositore indigeno Martin Coplas, si è ispirata al mito della Terra senza Mali dei popoli guarani. La Messa dei Quilombos scritta dagli stessi poeti, con musica del cantante nero Milton Nascimento, ha attualizzato la memoria di popolazioni schiavizzate che erano fuggite per costruirequilombos (7) della libertà e ha celebrato l’attuale rinascita culturale e spirituale degli afro-discendenti (8).
FAR SCENDERE DALLA CROCE I CROCIFISSI DI OGGI
Nel campo della CRISTOLOGIA, Medellín recupera la lettura di LG 8 che parte dall’umanità di Gesù e dalla sua identificazione con i più poveri nella linea del servo sofferente di Isaia e della kenosi dell’inno della lettera ai Filippesi (Fl 2,6). Propone come compito concreto: «far scendere dalla croce i crocifissi di oggi». Detto in altre parole, il nucleo della cristologia è la sequela di Gesù nel suo impegno liberatore con gli esclusi:
«E’ il medesimo Dio [che creò l’uomo a sua immagine e somiglianza], che nella pienezza dei tempi, mandò il figlio suo perché fatto Carne liberasse tutti gli uomini da tutte le schiavitù alle quali li aveva assoggettati il peccato: la fame, la miseria, l’oppressione e l’ignoranza – in una parola, l’ingiustizia e l’odio che hanno la loro origine nell’egoismo umano (Gv 8, 32-35). E quindi, per la nostra vera liberazione, abbiamo tutti bisogno di una profonda conversione, perché giunga a noi il “Regno di Giustizia, di amore e di pace”» (MED 1,3).
Uno degli sviluppi più belli della cristologia di Medellín si trova nel documento di Puebla:
«Questa situazione di estrema povertà generalizzata, nella vita reale prende forme concretissime nelle quali dovremmo riconoscere le forme di sofferenza di Cristo, il Signore che ci scruta e ci interpella» (P. 31). In una lettura storico-strutturale delle esclusioni ed oppressioni di cui è stato vittima il popolo e che continuano a pesare su di esso, Puebla enumera i volti sofferenti di indigeni e afro-americani, di contadini e operai, di sotto-occupati e disoccupati, di emarginati, di abitanti delle favelas, di bambini abbandonati e sfruttati, di giovani disorientati e frustrati e di anziani sempre più numerosi e collocati ai margini della società (P. 31-39).
Una tale ispirazione è ripresa consapevolmente in Aparecida:
«Se questa opzione [per i poveri] è implicita nella fede cristologica, i cristiani, come discepoli e missionari, sono chiamati a contemplare, nei volti sofferenti dei nostri fratelli, il volto di Cristo che ci chiama a servirLo in essi: “I volti sofferenti dei poveri sono volti sofferenti di Cristo”» (AP 393).
PER UNA CHIESA DI COMUNITÀ, SERVA E POVERA
L’ECCLESIOLOGIA di Medellín assimila perfettamente le grandi intuizioni della Lumen Gentium: Chiesa come Popolo di Dio; battesimo come fonte e radice dei ministeri; la chiamata di ciascun cristiano alla santità e all’apostolato. Fa, tuttavia, alcuni passi in avanti, nel contempo che ne radicalizza altri.
In primo luogo, la Chiesa è presentata come Chiesa di tutti, ma eminentemente come CHIESA DEI POVERI, a servizio dei valori del Regno. «Povertà nella Chiesa» è il titolo del documento 14 e il centro della sua proposta teologica e pastorale:
«Vogliamo che la Chiesa in America Latina sia evangelizzatrice e solidale con i poveri, testimonianza del valore dei beni del Regno e umile serva di tutti gli uomini dei nostri popoli» (MED 14,8).
L’opzione per i poveri di Medellín è rinnovata a Puebla:
«La Conferenza di Puebla torna ad assumere, con rinnovata speranza nella forza vivificante dello Spirito, la posizione della II Conferenza Generale che fece una chiara e profetica opzione preferenziale e solidale per i poveri [...]» (P. 1134).
Puebla riconosce che la situazione dei poveri s’è fatta più grave:
«L’immensa maggioranza dei nostri fratelli continua a vivere in situazione di povertà, e persino di miseria, che si è man mano aggravata. Vogliamo prendere coscienza di ciò che la Chiesa latino-americana ha fatto o ha cessato di fare per i poveri dopo Medellín, come punto di partenza per la ricerca di piste opzionali efficaci nella nostra azione evangelizzatrice nel presente e nel futuro dell’America Latina» (P. 1135).
Fa dei poveri la misura della nostra sequela di Gesù:
«Avvicinandoci al povero per accompagnarlo e servirlo, facciamo ciò che Cristo ci ha insegnato, quando si fece nostro fratello, povero come noi. Per questo, il servizio dei poveri è misura privilegiata, ma senza esclusivismo, della nostra sequela di Cristo» (P. 1145).
Puebla innova rispetto a Medellín, quando erige i poveri a soggetti e protagonisti dell’evangelizzazione e maestri della Chiesa:
«L’impegno con i poveri e oppressi e la nascita delle Comunità di Base hanno aiutato la Chiesa a scoprire il potenziale di evangelizzazione dei poveri, nel senso che essi la interpellano costantemente, chiamandola alla conversione, e molti di essi realizzano nella propria vita i valori evangelici di solidarietà, servizio, semplicità e disponibilità per accogliere il dono di Dio» (P. 1147).
Aparecida, a sua volta, approfondisce il radicamento cristologico dell’opzione per i poveri di Medellín:
«La nostra fede proclama che “Gesù Cristo è il volto umano di Dio e il volto divino dell’uomo” (EAm 67). Per questo, “l’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica nella quale Dio si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà” (DI 3). Questa opzione nasce dalla nostra fede in Gesù Cristo, il Dio fatto uomo, che si fece nostro fratello (cf, Eb 2, 11-12)» (AP 392).
Il documento 15 di Medellín sulla Pastorale Organica presenta le COMUNITA’ DI BASE come la via per rinnovare le strutture ecclesiali, a partire dalla base della società e della Chiesa, dando ampio spazio ai laici e laiche, alla centralità della Parola di Dio di cui i piccoli si sono appropriati, alla congiunzione di fede e vita, di esperienza ecclesiale e impegno sociale e politico per trasformare la società:
«Di conseguenza, lo sforzo pastorale della Chiesa deve essere orientato verso la trasformazione di queste comunità [di base] in “famiglia di Dio”, cominciando a rendersi presente in esse come fermento, per mezzo di un nucleo, anche piccolo, che costituisca una comunità di fede, speranza e carità (LG 8). In tal modo, la comunità cristiana di base è il primo e fondamentale nucleo ecclesiale, che deve, al suo livello specifico, farsi responsabile della ricchezza e dell’espansione della fede, come anche del culto che ne è l’espressione. Essa è, quindi, cellula iniziale di strutturazione ecclesiale e matrice di evangelizzazione e attualmente fattore primordiale di promozione umana e sviluppo» (MED 15,10).
Mentre in paesi come il Brasile, le Comunità Ecclesiali di Base (CEB) divennero priorità della Chiesa tutta nei suoi piani e impostazioni pastorali, in altri, come la Colombia, vennero proibite, accusate di essere Chiesa “parallela” o Chiesa “popolare”, in senso peggiorativo. E’ sintomatico che il gruppo di vescovi eletti per dare forma sistematica alle proposte approvate al Sinodo dell’America (1997), in vista della redazione della esortazione post-sinodaleEcclesia in America, venissero avvertiti dal cardinale Jan Schotte, segretario del Sinodo, che le parole “CEB” e “Teologia della Liberazione” non potevano essere presenti nel testo. Nelle proposte in cui apparivano riferimenti alle CEB, queste venivano sostituite con «piccole comunità cristiane» o «comunità cristiane di base».
Ad Aparecida, i vescovi espressero il loro apprezzamento per le CEB, riconobbero il valore della loro esperienza ecclesiale, il loro legame con il cammino iniziale delle prime comunità negli Atti degli Apostoli, l’esperienza di martirio di molti dei loro membri, e il loro collegamento storico con Medellín:
«Nell’esperienza ecclesiale dell’America Latina e dei Caraibi, le Comunità Ecclesiali di Base sono state scuole che hanno contribuito a formare discepoli e missionari del Signore, con la testimonianza di impegno generoso, fino allo spargimento del sangue, di molti dei loro membri. Esse seguono l’esperienza delle prime comunità, come vengono descritte negli Atti degli Apostoli (At 2,42-47). Medellín ha riconosciuto in esse una cellula iniziale di strutturazione ecclesiale, e matrice di fede ed evangelizzazione. Radicate nel cuore del mondo, esse sono spazi privilegiati per vivere comunitariamente la fede, sorgenti di fraternità e di solidarietà e alternativa alla società attuale fondata sull’egoismo e sulla competizione spietata» (AP 178) (9).
COLLEGIALITÀ PIÙ PIENA E COMPLETA
Il Vaticano II sarà ricordato come il Concilio che ha ristabilito in seno alla Chiesa Latina la sinodalità come elemento essenziale della struttura ecclesiale, che ha la sua espressione tipica nel collegio dei Dodici. In questo collegio, a Pietro fu affidato il compito di confermare i fratelli: «Et tu, aliquando conversus, confirma fratres tuos», «E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,32). Il Vaticano II cerca di ristabilire un certo equilibrio, non ancora raggiunto, tra primato petrino e collegialità episcopale. Non è riuscito ad avanzare fino a stabilire il principio della collegialità delle chiese tra loro e non soltanto tra i loro pastori, i vescovi. Il modo di incarnare questa corresponsabilità dei vescovi tutti insieme con il Papa nel governo della Chiesa, tuttavia, è rimasto a metà strada, con la istituzione del Sinodo dei vescovi dotato unicamente di carattere consultivo e non deliberativo.
Medellín, come in una replica dell’assemblea conciliare, a livello continentale, ha esercitato la collegialità, in maniera deliberativa, sfociando in un vero e proprio magistero, senza paragone nell’esperienza ecclesiale d’Africa, Asia ed Europa. In questo senso, la Conferenza di Medellín ha rappresentato un modello più prossimo ad un Concilio ecumenico deliberante, che non gli attuali Sinodi unicamente consultivi.
Santo Domingo, per il rigido controllo a cui fu sottoposto da parte delle autorità romane, ha rappresentato un chiaro passo indietro. La convocazione del Sinodo dell’America (1997), che ha interrotto la serie delle Conferenze dell’Episcopato, ha lasciato nell’aria un dubbio se ci sarebbe stato ancora spazio per una nuova Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano.
In verità, quando il CELAM sollecitò da Roma la convocazione di una V Conferenza, che all’inizio del nuovo millennio permettesse all’America Latina e ai Caraibi di valutare le nuove circostanze e proporre la direzione del proprio cammino, la prima risposta della Segreteria di Stato fu: Sinodo, si; Conferenza, no; Sinodo a Roma, si; Sinodo in America Latina, no, per la precaria salute del Papa che gradirebbe partecipare.
Il CELAM portò la questione direttamente a Giovanni Paolo II, manifestando il desiderio di realizzare una nuova Conferenza dell’Episcopato dell’America Latina e dei Caraibi e non un Sinodo. Di fronte ad una tale difficoltà, il Papa chiese che fossero consultati i cardinali latino-americani e le Conferenze episcopali del continente. Dei cardinali, 12 proposero la realizzazione di un Sinodo e 18 di una Conferenza. Delle Conferenze episcopali soltanto una si dichiarò per il Sinodo e 21 per una nuova Conferenza. Il Papa stabilì allora che si seguisse la tradizione della chiesa latino-americana.
Conservare questa tradizione è essenziale per l’America Latina, ma anche per la Chiesa universale, perchè fioriscano, in comunione con la Sede romana, le chiese locali, con la loro pastorale, la loro teologia, la loro liturgia, il loro magistero, le loro assemblee deliberative, dotandosi di strumenti pastorali propri, sempre più radicati e inculturati nella realtà di ciascuna regione e continente.
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