Che senso ha dire che si è pentiti dei propri peccati, se la mente brucia delle stesse passioni di un tempo?
Io
voglio provare per tutta la vita attraverso la contrizione dell’anima
quello stesso dolore che tu hai sofferto per un attimo nella carne e
offrire così a te, se non a Dio, una specie di soddisfazione.
In
effetti per confessare apertamente la miseria e la debolezza del mio
cuore, non saprei proprio trovare da sola una forma di espiazione che
possa soddisfare Dio; anzi talora arrivo al punto di accusarlo di
crudeltà per aver permesso l’oltraggio di cui sei stato vittima, e
mi rendo conto che più che cercare di placare la sua collera con la
penitenza, lo offendo con il mio atteggiamento ribelle e con la mia
sorda opposizione alla sua volontà. Che senso ha, infatti, dire che
si è pentiti dei propri peccati e umiliare in tutti i snodi il
proprio corpo, se la mente è ancora pronta a peccare e anzi brucia
delle stesse passioni di un tempo?
È facile, non lo metto in dubbio,
confessare i propri peccati e accusarsene e magari sottoporre il
proprio corpo a macerazioni esteriori: quello che è difficile è
strapparsi dall’anima il desiderio dei più dolci piaceri. Per
questo, non senza motivo Giobbe dopo aver detto: «Scaglierò le mie
parole contro di me» — cioè scioglierò la lingua e aprirà la
bocca per confessare e denunciare i miei peccati —, subito
aggiunge: «Parlerò dell’amarezza del mio cuore.» E spiegando
questo passo, San Gregorio osserva: «C’è parecchia gente che
confessa i propri peccati a voce alta, ma nel corso della confessione
non riesce a piangere e dice con animo allegro quello che dovrebbe
dire con le lacrime agli occhi... Non basta dunque parlare delle
proprie colpe e detestarle, ma bisogna parlarne nell’amarezza
dell’anima, affinché questa amarezza stessa purifichi tutte le
colpe che la lingua guidata dalla mente denuncia.» Ma questa
amarezza che accompagna il vero pentimento è molto rara, e
giustamente sant’Ambrogio ce lo fa notare quando scrive: «Finora
ho trovato più gente che si è conservata innocente che gente che ha
fatto penitenza.» Per me, in verità, i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né odiarli né dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi e il desiderio che suscitano non mi lascia mai. Anche quando dormo le loro fallaci immagini mi perseguitano. Persino durante la santa Messa, quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima e io non posso far altro che abbandonarmi ad essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quel che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i vari momenti in cui siamo stati insieme, mi sembra di essere lì con te a fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi. Talvolta, da un movimento del mio corpo o da una parola che non sono riuscita a trattenere tutti capiscono quello a cui sto pensando.
Allora mi sento un’infelice e posso ben esclamare anch’io con quella povera anima in pena: «Oh, me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?», e potessi anch’io aggiungere davvero: «La grazia di Dio per nostro Signore Gesù Cristo! Su di te, mio caro, questa grazia è già scesa, senza che tu la chiedessi: la ferita che hai ricevuto nel corpo, liberandoti da tutti questi stimoli, ti ha guarito anche dalle piaghe dell’anima: e proprio là dove sembrava che ti avesse maggiormente danneggiato, Dio si è rivelato invece molto propizio, proprio come un buon medico che non esita a far soffrire il suo paziente quando vuoi assicurargli la guarigione. Io invece sono giovane, facile preda alle lusinghe del piacere, e il ricordo stesso dei piaceri già gustati raddoppia il desiderio che mi brucia: in me gli stimoli della carne sono tanto più pericolosi quanto più debole è la natura con cui hanno a che fare.
La gente loda la mia castità, ma non sa che in realtà io sono un’ipocrita. Mi considerano virtuosa perché conservo pura la carne, ma la virtù è una cosa che riguarda l’anima, non il corpo. E se, nonostante tutto, gli uomini possono lodarmi, presso Dio non ho alcun merito, perché egli sonda il cuore e le reni, e vede anche ciò che gli altri non possono vedere. Lodano la mia religiosità, ma oggi la religiosità in gran parte non è altro che ipocrisia, e per essere lodati basta non andare contro il senso comune. Forse in un certo senso può apparire lodevole e può anche in qualche modo essere gradito a Dio il fatto che qualcuno, al di là delle sue intenzioni, non dia scandalo in seno alla Chiesa con il suo comportamento esteriore: dopo tutto basterebbe ad esempio che non desse agli infedeli il motivo di bestemmiare il nome di Dio o ai libidinosi l’occasione di diffamare l’ordine a cui ha fatto voto di appartenere. Anche questo in effetti, è un dono, piccolo o grande che sia, della grazia divina, che sola può suggerire non solo di fare il bene, ma anche di non fare il male. Ma è inutile mettere in pratica quest’ultimo suggerimento, se poi non si attua l’altro, se cioè non si fa anche il bene, perché sta scritto: «Fuggi il male e fa’ il bene!» ed è inutile anche fare l’una e l’altra cosa, se non si fanno per amore di Dio.
Ora, in tutto il corso della mia vita — Dio lo sa — ho sempre temuto più di offendere te che di offendere Dio, ho sempre cercato di piacere a te più che a lui. Un tuo ordine, e non la voce di Dio mi ha indotta a prendere l’abito religioso. Pensa dunque come debba essere infelice e miserabile la mia vita, se qui sulla terra sopporto pene così atroci, pur sapendo che non ne riceverà alcuna ricompensa in futuro.
La mia abilità nel fingere ti ha a lungo tratto in inganno, come del resto ha ingannato tutti: anche tu, come tutti, hai attribuito a un sentimento di devozione religiosa quello che altro non era che ipocrisia: raccomandato alle mie preghiere, ma non sai che quello che tu chiedi a me, io lo aspetto da te.
Non sopravvalutare i miei reali meriti, ti prego. Non smettere neanche per un attimo di aiutarmi con le tue preghiere: io non sono affatto guarita, non posso fare a meno dell’aiuto della tua medicina. Non credere che io non abbia più bisogno di te e delle tue cure, perché in realtà non puoi lasciarmi sola neanche un momento. In non sono affatto guarita e potrei cadere prima che tu giunga in tempo per tenermi in piedi.
Le lodi false e bugiarde hanno mandato in rovina molte persone perché hanno tolto loro gli aiuti e gli appoggi di cui invece avevano ancora bisogno.
Eloisa ad Abelardo, Lettera IV
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