di Sabrina Magnani
in “Settimana” n. 17 del 28
aprile 2013
La notizia buona è che è in
costante diminuzione, quella meno buona è che la si è registrata in paesi che
da tempo non ne facevano ricorso: la pena di morte è sempre più osteggiata nel
mondo, confermando la tendenza a una sua drastica diminuzione ma, al tempo
stesso, presenta una ripresa in paesi che parevano averla dimenticata. È quanto
emerge dal Rapporto annuale sulla pena di morte elaborato da
Amnesty International e presentato a Roma il 10 aprile, che analizza il ricorso
alla massima pena capitale paese per paese, contestualizzandolo nell’ambito del
più ampio discorso dei diritti umani. Nel corso del 2012 ci sono state
esecuzioni in 21 paesi, lo stesso numero dell’anno precedente ma meno rispetto
a dieci anni fa, quando erano 28. Le pene capitali eseguite di cui l’associazione
è venuta a conoscenza sono state 682, all’incirca le stesse dell’anno
precedente, mentre 1.722 sono state le sentenze capitali proclamate in 58
paesi. Nonostante l’impegno di Amnesty a documentare nella maniera più adeguata
il fenomeno, questi numeri non comprendono le centinaia di esecuzioni che si
ritiene abbiano avuto luogo in Cina, dove i dati sulla pena di morte sono
mantenuti segreti, così come accade anche in Iran.
Si tratta di due paesi
asiatici, accomunati dall’essere guidati da regimi semi-autoritari o comunque non
democratici, che volutamente mantengono un’opacità funzionale per poter agire
in totale arbitrarietà, senza alcun rispetto per i diritti umani. Ed è,
infatti, proprio l’Asia la regione del mondo in cui il ricorso alla pena di
morte ha registrato le maggiori impennate, evidenziando – come già rilevato dai
precedenti Rapporti – lo stretto legame con la mancanza di democrazia.
Asiatici sono quattro dei cinque paesi che presentano il maggior numero di
esecuzioni: Cina, Iran, Iraq e Arabia Saudita, a cui si aggiunge lo Yemen, al
sesto posto dopo gli Stati Uniti. E, mentre i metodi di esecuzione sono
differenti, dalla decapitazione all’impiccagione, dalla fucilazione all’iniezione
letale, diversi sono anche i reati per cui si giunge alla massima pena
capitale, tra cui quello di apostasia, di blasfemia e di adulterio.
Nell’area asiatica paesi
importanti come l’India, il Giappone e il Pakistan hanno ripreso le esecuzioni dopo un lungo
periodo: in India è stata eseguita la prima condanna dal 2004, portando sul
patibolo uno degli uomini coinvolti negli attacchi a Mumbai del 2008, mentre in
Giappone sono state impiccate tre persone che erano detenute nel braccio della
morte. Ma è il Pakistan il paese in cui la ripresa delle esecuzioni ha mostrato
l’impennata più sostanziosa. A marzo sono stati condannati a morte il
governatore del Punjab e il Ministro per le minoranze, di religione cristiana, per
avere criticato la legislazione sulla blasfemia. È stata la punta dell’iceberg
di un atteggiamento delle forze governative volto a reprimere nella violenza
il dissenso, in questo aiutate dalle forze di sicurezza che sono state
implicate in violazioni come sparizioni forzate, torture ed esecuzioni extragiudiziali.
Il caso del Pakistan
In un contesto di conflitto
come quello della provincia di Balucistan che ha provocato quasi un milione di
sfollati, i talebani pakistani hanno avuto modo di abusare con violenze di
vario genere sulla popolazione locale, con attacchi alla popolazione civile e
anche alle scuole. E se la libertà di espressione è del tutto osteggiata – come
testimoniano le uccisioni di ben nove giornalisti in un anno – i gruppi settari
hanno continuato a minacciare le minoranze religiose come quelle ahmadi,
cristiane, indù e scite, e incitato alla violenza chi invocava la riforma delle
legge sulla blasfemia. Le donne hanno subìto discriminazioni sul piano
giuridico e pratico e violenze sia in ambito domestico che nella sfera
pubblica: circa 8.500 sono stati i casi di violenza contro le donne, tra cui
più di 1.500 omicidi, circa 900 stupri, 610 episodi di violenza, e 44 attacchi
con l’acido, una vile e terribile modalità di violenza contro le donne che pare
molto diffusa nel paese.
Nel 2010 il parlamento si è
dotato di leggi di prevenzione di questo tipo di crimini, considerando reato
gli attacchi con l’acido e la pratica dei matrimoni forzati.
È in un simile contesto in
cui è maturato l’aumento dell’uso della pena capitale, con 313 condanne a morte,
a testimonianza del fatto che, laddove i diritti umani sono più disattesi,
cresce in maniera esponenziale il ricorso alla pena capitale. Il caso del
Pakistan non è certo unico nel suo genere.
L’Iran è un altro paese dove
la cultura dei diritti umani è stata contrastata fortemente, ed infatti è pari
al Pakistan in quanto a numero di esecuzioni registrate, 314, cifra che dev’essere
considerata in difetto, poiché anche il regime di Ahmadinejad non rende
pubbliche le cifre riguardo le condanne a morte.
Anche l’Iraq, con le sue 129
condanne a morte eseguite, quasi il doppio dell’anno precedente, mostra come
una situazione di conflitto cronico e di forte instabilità alimenti la cultura
della pena capitale come mezzo per eliminare l’opposizione e mantenere l’ordine
sociale.
Anche un paese come l’India,
che si accinge ad essere annoverata tra le potenze economiche mondiali, il
ricorso alla pena di morte cresce in un clima di violenza e di abuso molto
spesso impunito dei più elementari diritti umani, come la violenza contro le
donne, giunto a un punto tale da aver provocato mobilitazioni e decise proteste
da parte dei cittadini, ultima in ordine cronologico quella che si è avuta a
nei giorni scorsi dopo la notizia dello stupro e dell’uccisione di bambine di cinque
e sei anni.
Stati abolizionisti
Ma ci sono anche sorprese
positive in Asia, come il Vietnam che non ha eseguito alcuna condanna, e la
ratifica della convenzione per la moratoria della pena capitale da parte della
Mongolia e di Singapore.
In Occidente l’unico paese
in cui la pena di morte continua a esserci sono gli Stati Uniti, in cui, pur in
assenza degli elementi sopra descritti, si sono avute 43 esecuzioni, come nel
2011. Ma, invece che avvenire in 13 paesi come nell’anno precedente, sono stati
nove i paesi teatro di tali esecuzioni, segno che anche tra gli stati americani
aumentano quelli che decidono di rinunciare alla pena capitale. È il caso, per
esempio, del Connecticut, divenuto il 17° stato abolizionista, mentre in California
un referendum per poco non ha ottenuto lo stesso esito.
In Africa subsahariana sono
notevoli i risultati abolizionisti ottenuti dal Ghana e dal Benin,
entrambi determinati nel
togliere la pena capitale dalla Costituzione, e dalla Sierra Leone, dove non si
è più proceduto a condannare a morte i prigionieri. Tuttavia, anche in questa
parte del continente africano non sono mancati paesi che nel corso del 2012
hanno ripreso le condanne capitali come il Sudan e la Gambia, rispettivamente
con 19 esecuzioni e 3 condanne a morte. In Europa l’unico paese in cui la pena
capitale è ancora vigente continua a essere la Bielorussia, con 3 esecuzioni avvenute
in forma segreta.
«I passi indietro che
abbiamo visto in alcuni paesi sono stati deludenti, ma non hanno invertito la tendenza
mondiale contro il ricorso alla pena di morte – ha dichiarato il segretario
generale di Amnesty, Salil Shetty –. Nel mondo solo un paese su dieci continua
ad avere la pena di morte. I loro leader dovrebbero chiedersi perché applicano
ancora una pena crudele e disumana che il resto del mondo sta abbandonando». A
quanti si appellano al fatto che la pena capitale è da considerare come uno
strumento di deterrenza, risponde una ricerca condotta nel 2012 dove si afferma
che «non c’è alcuna prova che indichi che la pena di morte abbia un potere
deterrente speciale contro il crimine». Smontata, dunque, l’obiezione più
importante, non resta che proseguire nell’impegno per una totale abolizione
della pena capitale indipendentemente dal reato commesso, dalla natura e dalla circostanza
del crimine, dalle caratteristiche dell’individuo, come Amnesty International
continua a fare.
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