Come
l‘uomo ha bisogno del riposo fisico per ritemprare il corpo, il
quale non può lavorare di continuo per la limitazione delle sue
energie, così ne ha bisogno anche dalla parte dell‘anima, le cui
forze sono adeguate solo per determinate attività. Perciò quando
l‘anima si occupa oltre misura in qualche lavoro, sente lo sforzo e
la fatica: specialmente perché nelle attività dell‘anima
collabora anche il corpo, dato che anche l‘anima intellettiva si
serve di facoltà che agiscono mediante organi corporei. Ora, i beni
connaturali all‘uomo sono quelli sensibili. E così quando l‘anima,
occupata in attività di ordine razionale, sia in campo pratico che
speculativo, si eleva al disopra delle realtà sensibili, sente una
certa fatica. Soprattutto però se attende all‘attività
contemplativa, perché allora si eleva maggiormente sui sensi;
sebbene forse la fatica del corpo in certe attività della ragione
pratica sia maggiore. Tuttavia, sia nel primo che nel secondo caso,
tanto più uno si affatica nell‘anima quanto più grande è
l‘impegno col quale attende alla sua attività razionale. Ora, come
la fatica fisica si smaltisce con il riposo del corpo, così la
fatica dell‘anima deve smaltirsi con il riposo dell‘anima. Ma il
riposo dell‘anima è il piacere, come si è detto sopra [I-II, q.
25, a. 2; q. 31, a. 1, ad 2] nel trattato sulle passioni. Quindi per
lenire la fatica dell‘anima bisogna ricorrere a un piacere,
interrompendo la fatica delle occupazioni di ordine razionale.
Come
in Cassiano [Coll. 24, 21] si legge che S. Giovanni Evangelista,
essendosi alcuni scandalizzati per averlo trovato mentre giocava con
i suoi discepoli, comandò a uno di loro, che aveva un arco, di
lanciare una freccia. E avendo costui fatto questo più volte, gli
domandò se poteva ripetere di continuo quel gesto. L‘arciere
rispose che in tal caso l‘arco si sarebbe spezzato. E allora S.
Giovanni replicò che anche l‘animo si spezzerebbe se non gli fosse
mai concesso un po‘ di riposo. Ora, le parole e gli esercizi in cui
si cerca soltanto la distensione dell‘animo vengono detti
scherzosi, o giocosi. È quindi necessario ricorrere ad essi a
ristoro dell‘anima. Per questo il Filosofo [Ethic. 4, 8] afferma
che «nel corso della vita si ha un riposo nel gioco»: quindi talora
bisogna ricorrervi. Però in proposito occorre badare specialmente a
tre cose. Prima di tutto a che questo piacere non venga mai cercato
in atti o parole turpi o dannose. Per cui Cicerone [De off. 1, 29]
scrive in proposito che «c‘è un tipo di gioco scortese,
insolente, delittuoso e osceno». - La seconda cosa a cui badare è
che l‘anima non abbandoni del tutto la sua gravità. Da cui le
parole di S. Ambrogio [De off. 1, 20]: «Nel rilassare l‘animo
badiamo a non dissolvere ogni armonia, che è come l‘accordo delle
opere buone». E Cicerone [l. cit.] scrive che «come ai fanciulli
non diamo ogni libertà nel gioco, ma solo quella che non si scosta
dall‘onestà, così anche nel nostro gioco deve brillare la luce
dell‘animo retto». - In terzo luogo si deve badare, qui come anche
in tutte le altre azioni umane, a che il divertimento sia adatto alle
persone, al tempo, al luogo e a tutte le altre debite circostanze:
cioè, come scrive Cicerone [ib.], a che «sia degno del tempo e
dell‘uomo». Ora, tutte queste norme sono ordinate dalla ragione.
Ma un abito che agisce in conformità con la ragione è una virtù.
Quindi il gioco può essere oggetto di una virtù, che il Filosofo
chiama «eutrapelìa». E si dice che uno è eutrapelos da buona
versione: poiché sa volgere bene in ischerzo i fatti e le parole. E
siccome questa virtù fa evitare gli eccessi nel gioco, essa rientra
nella modestia.
Tommaso
D'Aquino,Summa Theologiae
Commenti