Vi
presentiamo questo articolo, uscito Ricerca
(il bimestrale della FUCI) due anni fa, che parla del giudice Rosario Livatino vittima della mafia.
di Manuela
Cilia
«...Forse
tu agisci da re
perché
ostenti passione per il cedro?
Forse tuo
padre non mangiava e beveva?
Ma egli
praticava il diritto e la giustizia
e tutto
andava bene
Egli
tutelava la causa del povero e del misero...» (Ger. 22,15)
Il versetto di
Geremia rispecchia il clima di degrado politico che attraversava l'Italia degli
anni '70 e '80. Era il periodo del “regime di corruzione” in cui i politici al
governo assestavano duri colpi alla magistratura da un lato delegandole la
risoluzione dei gravi problemi della nostra democrazia, dall'altro diffidandone
col timore che il loro potere venisse da essa stessa minacciato.
Una
schiera di giudici ragazzini isolata e spesso messa sotto indagine
dall'amministrazione della giustizia dell'era Vassalli aveva l'oneroso compito
di districare i nodi di quell'ingarbugliata matassa che era ed è tutt'ora la
mafia. Tra questi giovanissimi giudici spiccava Rosario Livatino, uomo onesto e
riservatissimo tanto da rifuggire la vita mondana. La sua timidezza, però, non
lo ostacolò mai nell'esercizio della verità: il giovane Livatino severamente
affermava l'assoluta indipendenza dei giudici da ogni forma di potere e
rivendicava la loro subordinazione alla sola Legge e alla sua più alta e
democratica espressione: la Costituzione.
Rosario
Livatino nacque nel 1952 in una famiglia storica di Canicattì, il nonno ne fu
sindaco. Sin dagli inizi della sua carriera scolastica dimostrò di essere
dotato di una mente brillante che lo portò a conseguire la maturità classica
col massimo dei voti e la laurea a soli ventidue anni con una lusinghiera lode.
Per Livatino ebbe inizio l'iter dei concorsi. Si affacciò subito con successo
al mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore dell'Ufficio del
Registro di Agrigento, incarico che lasciò per approdare al sogno di una vita:
la magistratura.
Presto
il giovane Livatino ricevette la nomina di Sostituto Procuratore presso il
Tribunale di Agrigento dove per un decennio si occupò delle più delicate
indagini antimafia.
Il
suo unico rifugio divenne la sua casa a Canicattì, città purtroppo poco sicura
perché sede di una mafia antica, la mafia che lavorava ancora la terra, la
mafia delle coppole e delle lupare.
Via
via conducendo le indagini Livatino mise appunto una sua personale tecnica
investigativa: procedeva scomponendo l'insieme e dando rilievo ai dettagli che
ne derivavano, poi conferiva significato ai dettagli riosservandoli nel quadro
d'inseme. Questa metodologia gli consentì nel 1982 di risolvere il caso delle
cooperative giovanili di Porto Empedocle che erano state finanziate dalla
Regione Sicilia con criteri truffaldini.
Sempre
nel 1982 grazie alle intuizioni di Livatino la procura di Agrigento avviò
un'inchiesta sulle fatture false dei Cavalieri del Lavoro catanesi. Da Rendo ai
Costanzo, a Graci, Campagna e Parasiliti, tutti avevano emesso fatture false
con importi milionari. Il denaro veniva raccolto in conti a nome di un boss
agrigentino, Filippo Di Stefano, e di un uomo d'onore, Giuseppe Cremona. Questa
inchiesta lasciò l'amaro in bocca a Livatino perché toccò con mano quanto i mal
affari tra mafia agrigentina e imprenditoria avessero l'appoggio dei politici e
dei rappresentanti di alte cariche come quello di Corrado Carnevale, presidente
della prima sezione penale della Corte di Cassazione, che revocò il mandato di
cattura nei confronti di Rendo, dei Costanzo e di tutti gli altri coinvolti.
Durante
questo“regime di corruzione” i giudici di trincea come Livatino venivano
continuamente sconfitti. Tra le varie sconfitte vi fu la riforma del codice
penale messa appunto dall'allora Ministro di Giustizia Giuliano Vassalli che,
di fatto, ridusse l'autonomia dei giudici. Livatino non mancò mai di apporre le
sue critiche sulle pressioni provenienti dalle gerarchie politiche e sulla
questione degli incarichi professionali extragiudiziari. Tutto ciò contrastava
il pensiero dominante della filosofia giudiziaria di Livatino: l'indipendenza
del giudice che doveva rifarsi a una propria «coscienza politica».
Negli
anni '84 e '85 Livatino continuò a scontrarsi con la mafia e l'amministrazione
pubblica, talvolta i membri delle cosche erano gli stessi che andavano a
ricoprire cariche politiche. Il 1984 fu la volta del processo «alla mafia di
Agrigento» contro «Ferro Antonio e altri», quel Ferro Antonio che insieme alla
famiglia dominava Canicattì e dintorni.
In
quegli stessi anni Livatino con la procura di Agrigento scoprì altri legami tra
imprese, amministratori locali e i clan Colletti di Ribera e Pitruzzella di
Favara. Singolare fu anche scoprire i rapporti tra il Ministro Calogero Mannino
e alcuni ufficiali medici che avevano chiesto la modifica di alcune leggi. La
mediazione tra le parti avveniva tramite il Colonnello Francesco Cascioferro,
nipote di Vito Cascioferro, mandante dell'assassinio di Joe Petrosino, e dello
storico boss Giuseppe Settecasi. Durante l'interrogatorio Mannino, primo
ministro nella storia dell'antimafia ad essere sotto accusa, negò persino
dinanzi a prove schiaccianti: è stato assolto nel 2009.
Nel
1989 Livatino, anno in cui divenne giudice a latere della sezione misure
di prevenzione, avviò un'inchiesta sulla guerra dei clan di Palma di
Montechiaro. L'indagine coinvolse i cinque fratelli Ribisi per i quali il
giudice chiese il divieto di soggiorno in Sicilia. Il tribunale a luglio dello
stesso anno respinse la richiesta per insufficienza di prove, richiesta che per
alcuni di loro sarebbe stata una sorta di salvezza dal momento che poi tre di
loro morirono assassinati. Gli agguerriti resti del clan Ribisi organizzarono
il 21 settembre del 1990 un agguato sulla SS 640 in cui trovò la morte Rosario
Livatino, per loro troppo pericoloso.
Il
giorno dei funerali il padre Vincenzo affermò: «Rosario non è un eroe, è un
buon figlio, un buon siciliano». Io vorrei aggiungere “un buon italiano”,
testimone di Carità. Egli stesso scrisse in Fede e Diritto nel 1986: «Il
Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere giusti, anche se in
molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece
elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è
proprio questo salto di qualità che connota il cristiano. Alla fine giustizia e
carità combaciano».
Papa
Giovanni Paolo II lo definì “martire della giustizia ed indirettamente della
Fede”. S.E.Mons. Franco Montenegro, Arcivescovo della Diocesi di Agrigento, ha
interpellato la Conferenza Episcopale Siciliana che si è pronunciata
unanimemente per l'apertura del Processo Diocesano di Canonizzazione per
Rosario Livatino.
Alla
fine dalla vita di quest'uomo emerge prepotentemente che l'amore del Vangelo
smuove ogni cosa: «Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto
d'amore se è giustizia vera,e viceversa se è amore autentico»( Pietro
Pajardi, presidente del Tribunale di Milano).
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