Risurrezione e apparazioni di Cristo: una riflessione ancora viva nel pensiero teologico contemporaneo. Proviamo a tracciarne un primo percorso, stimolati da questo testo e da altri che ne seguiranno di differente orientamento. Rimarco che si tratta di un semplice spunto di riflessione e non di una posizione condivisa dal nostro blog.
di Giuseppe
Barbaglio
Ha insegnato presso la Facoltà teologica interregionale di Milano.
Dirige per le Edizioni Dehoniane di Bologna le collane «La Bibbia nella storia» e (con R. Penna)
«Scritti delle origini cristiane».
in “Concilium” del 2006 –
n. 5
Una lettura non ingenua
dei testi del Nuovo Testamento esige di comprenderne il linguaggio metaforico
familiarizzandosi in concreto con le metafore: risvegliare dal sonno della
morte e rialzare da terra, innalzare colui che era disceso in basso, ascensione
al cielo, apparizione, tomba vuota.
La loro funzione è di
comunicare realtà ed esperienze che vanno oltre al confine del nostro mondo umano
ed esprimono eventi della sfera divina attingibili solo con gli occhi della
fede. Nessuna descrizione di ciò che è capitato a Gesù; sarà solo il vangelo
apocrifo di Pietro, del II secolo, a farlo (9,34ss.). In realtà, siamo di
fronte all’indescrivibile, all’inenarrabile. Kessler non stupisce quando afferma:
«Una videocamera installata nel sepolcro non avrebbe ripreso nulla».
Negli scritti canonici
incontriamo le testimonianze di Pietro e compagni, non escluso Paolo, che
scaturiscono dalla loro esperienza: hanno incontrato nella loro vita il
Crocifisso come presenza operante - le apparizioni - e hanno intuito che Dio lo
aveva risuscitato, esaltato e glorificato. Lungo i secoli i lettori sono
confrontati direttamente con la loro confessione di fede emergente da un
vissuto di risuscitati e possono esserne coinvolti, condividendone nello stesso
tempo esperienza risurrezionale storica e confessione di Cristo risorto.
Il nucleo centrale
comunicato dagli scritti del Nuovo Testamento è dato dagli eventi di pasqua, colti
però non tanto in se stessi, quanto nella vissuta testimonianza dei primi
credenti. Partendo da questa possiamo coglierne il senso nascosto.
Il credo delle origini
recita: «È stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture ed è apparso
a Cefa e ai Dodici« (1 Cor 15,4s.), oppure: «II Signore è stato risuscitato e
si è fatto vedere a Simone» (Lc 24,34). Risurrezione e apparizione sono i due
essenziali eventi pasquali: il primo riguarda Gesù, la sua divinizzante
metamorfosi, come si dirà; il secondo indica l’esperienza d’incontro di Pietro
e compagni con Cristo che si è fatto loro incontro. Ed è da questa esperienza
che essi "deducono" che il Crocifisso è stato risuscitato da Dio.
1/ Le apparizioni
Sembra opportuno partire
dalle apparizioni attestate nelle confessioni di fede, ma anche in racconti più
o meno coloriti di tre vangeli (cf. Mt 28, Lc 24 e Gv 20-21). La catastrofe del
venerdì santo aveva causato il collasso della fede prepasquale di Pietro e
compagni, simboleggiata dalla fuga in Galilea (Mt 26,56): erano ritornati al
passato remoto, cancellando la passata comunanza di vita con Gesù. Ma, poco
dopo, confessano che Dio ha risuscitato il Crocifisso facendolo il primo dei
risorti e il principio di risurrezione per il mondo e l’umanità. Sono giunti a
questa fede perché «si è fatto vedere a loro» (ophthé).Il verbo greco che
traduce il corrispondente ebraico in forma riflessiva stava a indicare le
teofanie di Dio fattosi vedere ad Abramo (Gen 17,1), a Mosè (Es 3,2) ecc.
Parimenti il "farsi vedere a" di Gesù non esprime una visione
oculare, bensì una cristofania: egli è venuto incontro a Pietro e compagni. Non
sono essi che lo "vedono", che vanno incontro a lui: al contrario, è
lui che va loro incontro, manifestandosi dotato di potenza divina capace di
trasformare i loro cuori e le loro vite. In breve, è successo che da una
catastrofe psicologica è nata una personale "risurrezione": sono risorti a un’esperienze nuova di
fiducia in Gesù.
Come è potuto avvenire? Si
sono interrogati, sono riandati con i ricordi alle parole e alla vicenda del Maestro,
hanno meditato - si suppone - le Scritture e hanno concluso che questa loro
risurrezione spirituale non è stata un’autonoma impresa: non un processo psicologico
di elaborazione del lutto, della perdita, bensì un dono di grazia dello stesso
Gesù; e l’hanno interpretata come "apparizione", il suo nuovo modo di
rapportarsi a Pietro e compagni, diverso dalla comunanza di vita nella vicenda terrena e
simile a quello che Dio ha con gli uomini.
E, come traguardo di un
processo interpretativo non meglio precisato, hanno riconosciuto e affermato
che egli era stato risuscitato da Dio, diventando il Signore, il principio
capace di vivificare i morti, lui che aveva vivificato loro stessi traendoli
fuori dalla disperazione e portandoli a una nuova fede e a una nuova vita. In
breve, se è venuto incontro a noi - l’apparizione pasquale -, dicono, allora è
il Risuscitato e, insieme, il Risuscitatore.
2/ Risurrezione
Con questa metafora Pietro
e compagni hanno interpretato l’incontro straordinario da essi sperimentato,
l’"apparizione" di Cristo non ai loro occhi, bensì nella loro vita. È
propriamente una categoria teologica suggerita dalla tradizione ebraica, indicante
un evento che ha riguardato Gesù, coinvolgente però anche il destino del mondo
e dell’umanità. Dunque non è un evento privato, né una meteora improvvisamente
apparsa e altrettanto improvvisamente scomparsa, bensì un evento che si colloca
dietro le spalle, ma anche che copre il presente e promette il futuro.
Per lo stesso nostro
vocabolo "risurrezione" il greco usa due verbi (egéiro e anistemi)
espressivi di risveglio dal sonno e di rialzare da terra, che vengono intesi
nelle testimonianze del Nuovo Testamento in senso metaforico: Gesù crocifisso è
stato svegliato da Dio dal sonno della sua morte; Dio ha rialzato da terra
Gesù, caduto inerte al suolo. Non per nulla nei testi cristiani più antichi si
parla di «risurrezione dal regno dei morti (ek tòn nekrón)» (Rm 10,7; Col
1,18). Gesù è stato fatto uscire dall’antro tenebroso dello she’ól o dell’ade e
degli inferi. Le formule di fede più antiche indicano Dio come soggetto attivo
di risurrezione: ha risuscitato il Crocifisso con la sua potenza creativa di
vita. Confitto in croce e sceso nel regno dei morti, questi non aveva più
alcuna possibilità, per se stesso, di uscirne. Tutto è avvenuto per
un’iniziativa liberatrice del suo Dio.
Chi ha usato questa
metafora era di cultura ebraica. Nel mondo greco nessuno avrebbe mai detto che
Gesù era risuscitato, se è vero quanto affermano per esempio Eschilo: «Più non
esiste risurrezione» (Eumenidi 647s.) e Plotino: «II vero risveglio è una
risurrezione dal corpo, non con il corpo» (Enneadi 3,6,6,70-72). Questa
metafora era presente in alcuni settori del giudaismo del tempo, per esempio
tra i farisei, attestano Giuseppe Flavio (2, 163-165) e il Nuovo Testamento (Me
12,18-27; At 23,6-9): si sperava nella risurrezione finale, soprattutto dei
giusti (cf. anche Dn 12,ls. e 1 Enoc 51,1-5). Ma nel caso di Gesù si registrano
originalità importanti: è la risurrezione non di tutti, o di tutti i giusti, ma
di una sola persona; ed è evento già accaduto. Ancora, non è stato risuscitato
un glorioso martire, simile ai maccabei (cf. 2 Mac 7), bensì un crocifisso, un
maledetto da Dio secondo il famoso detto di Dt 21, ripreso da Paolo in Gal
3,13. Dunque non è fatale restare per sempre inchiodati al legno della croce:
nel crocifisso Gesù, schiodato da Dio, c’è promessa per gli innumerevoli
crocifissi della storia.
Soprattutto «Cristo è
stato risuscitato da Dio come primizia» (1 Cor 15,20s.), "primula"
della fioritura primaverile, dice il poeta Testori. Primizia erano i primi
frutti del campo offerti al tempio in segno di ringraziamento al Dio che aveva
dato la terra e fatto germogliare i suoi frutti. Con questa metafora Paolo
afferma che non si tratta della risurrezione di un individuo a sé stante: è il
primo dei rinchiusi nel regno dei morti ad esserne stato liberato da Dio;
seguiranno «quelli che appartengono a Cristo». Gesù risuscitato è «il primo
nato dal regno dei morti (protótokos ek tòn nekrón)» (Col 1,18; cf. Ap 1,5).
Paradossale: una nascita dal tenebroso dominio della morte! Il primo, quindi
non l’unico. Il rapporto però non è di un semplice prima e poi; è invece un
vincolo intrinseco: la risurrezione di Gesù comporta la risurrezione di altri,
perché risuscitato quale Risuscitatore. Paolo lo precisa servendosi del
parallelismo Adamo e Cristo, un modo culturale per esprimere la capacità
creativa di vita del Crocifisso: «Mediante un solo uomo si ha la morte e
mediante un solo uomo la risurrezione dei morti. Come infatti mediante Adamo
tutti muoiono, così anche per mezzo di Cristo tutti saranno vivificati» (1 Cor
15,21s.). Non diversamente si esprime poco oltre: «II primo uomo Adamo è
diventato un essere di vita naturale (psyché zósa), l’ultimo Adamo - quello dei
tempi della fine da lui introdotti nel mondo - spirito creatore di vita (pnéuma
zòopoiùn)» (1 Cor 15,45). "Spirito" nella tradizione ebraica sta a
significare la potenza di vita di Dio, «colui che crea vita ai morti
(zóopoiùntos tùs nekrùs)» (Rm 4,17).
Diremmo che Cristo è
diventato la concentrazione della potenza divina vivificante: beneficiario
della liberazione dal regno dei morti per intervento del suo Dio, a sua volta è
diventato colui che è capace di dare la vita ai morti - si direbbe, con
un’immagine, il campo magnetico delle forze spirituali del nuovo mondo. Il
riferimento è senz’altro alla sua azione finale di Risuscitatore, ma già al
presente è "spiritualmente attivo", attivo cioè della potenza dello
Spirito di Dio.
Una sintesi alta della
metamorfosi sperimentata da Gesù risorto è espressa nel titolo
"Signore" (Kyrios). In Rm 10,9 l’Apostolo dice: «Se tu confesserai
con la bocca che Dio lo ha risuscitato dai morti e crederai nel tuo cuore che è
il Signore, sarai salvato». Si noti il parallelismo tra confessare, una fede
socializzata nella formula del credo, e fede inferiore, del cuore. Ma parallelo
è anche l’oggetto del confessare e del credere: il Risuscitato è diventato il
Signore. La sua signoria non vuol dire autorità precettiva, bensì potere
salvifico, potere divino donatogli per grazia da Colui che nella Bibbia ebraica
era chiamato appunto «il Signore», ’"dhonay, Kyrios. «Chi invocherà il
nome del Signore sarà salvato» (Rm 10,13): si riferisce a Gesù quanto era
riferito ad ’"dhónay (Gì 3,5). Dunque nell’evento della risurrezione,
attestato da Pietro e dai primi credenti, Gesù è stato trasformato in un nuovo
essere, un essere divino. È sempre il Crocifisso, ma esistente «in un’altra
forma» (Mc 16,12). Forma (morphe) non è qui qualche cosa di esterno e
periferico; tocca in profondità la persona, determina la sua condizione
essenziale di vita. Gesù ha subito un processo di metamorfosi profonda per cui
è diventato il Signore, lo Spirito che crea vita là dove c’è morte, il primo
che trascinerà dietro a sé tutti gli altri traendoli fuori dal regno dei morti.
Tutto questo è riassunto dalla metafora: Dio lo ha risuscitato/egli è stato
risuscitato da Dio. Per questo è un evento che non possiamo cogliere con gli
occhi del nostro corpo o con la ragione; lo si può solo confessare nel vissuto
di fede, come è stato per Pietro e compagni.
3/ Polifonia di linguaggi
Si tratta di un evento
confessato in modo vario e ricco. Il linguaggio metaforico di risurrezione non
è l’unico, anche se il più attestato nella tradizione. Nelle testimonianze del
Nuovo Testamento si parla infatti di glorificazione, esaltazione e ascensione
al cielo, nonché di rivendicazione della causa del Crocifisso: linguaggi
diversi per significare una realtà così pregnante da richiedere più espressioni
capaci di evidenziarne le diverse sfaccettature. Ora, una seconda metafora,
parallela alla prima comunicata da Pietro e compagni, è quella di innalzamento.
Vi si esprime lo schema antitetico di alto e basso. Gesù crocifisso è stato
esaltato, cioè innalzato, lui che si era abbassato nella più grande umiliazione
della croce. Lo canta l’inno cristologico di Fl 2,6-11 con probabilità
pre-paolino: «Lui che viveva nella condizione divina (en morphè theù)... si è
svuotato del suo splendore assumendo la condizione umana servile (morphen
dùlu)... si è abbassato assoggettandosi al destino dei mortali, anzi alla morte
di croce». A tale abbassamento massimo ha risposto l’iniziativa del suo Dio che
«lo ha super-esaltato (hyperypsosen), facendogli dono del nome superiore ad
ogni altro», il nome di Signore. Se l’incarnazione è discesa (catabasi), la
risurrezione è anabasi, innalzamento alla sfera divina. La metafora spaziale ne
riassume la vicenda storica e metastorica:
era in alto ed è venuto in basso, nel mondo umano, una discesa con cui ha
toccato il fondo.
Ma Dio lo ha rimesso in
alto - non solo rimesso dov’era prima, ma messo su un gradino più alto ancora,
nominandolo e costituendolo Signore universale, degli esseri celesti, terrestri
e "infernali", dice il testo.
La stessa metafora
spaziale ricorre nel quarto vangelo: «Come Mosè ha innalzato il serpente nel deserto,
così è necessario che il figlio dell’uomo sia innalzato (hypsdthènai dèi)»
nella gloria della croce a salvezza di quanti credono in lui (Gv 3,14s.);
«Nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo (anabé-bèken,
ho katabàs)» (Gv 3,13). Una variante del binomio abbassamento/innalzamento è
l’antitesi umiliazione/glorificazione, presente soprattutto in Giovanni:
Dio ha onorato il
Crocifisso rivestendolo del suo splendore divino (gloria). Così Gesù ha pregato
nell’ora del suo
innalzamento sulla croce che per Giovanni costituisce la glorificazione
dell’Innalzato: «E ora, o Padre, avvolgimi dello splendore che io avevo presso
di te prima della fondazione del mondo» (Gv 17,5). Sempre di timbro spaziale la
metafora dell’ascensione al cielo (andlempsis/analambàno). «Fu assunto nella
gloria (divina)», canta l’inno cristologico di 1 Tm 3,16. Da parte sua Luca in
24,50s. offre un racconto non privo di dati cronologici e topografici: «Poi li
condusse fuori verso Befania e, alzate le mani, li benedisse e mentre li
benediceva si staccò da loro e veniva portato in cielo». Così anche in At 1,
dove l’andata in cielo di Cristo risorto è connessa alla sua venuta finale:
«Questo Gesù, lui che è stato assunto in cielo e tolto a voi, verrà a quel modo
che l’avete visto andare in cielo» (v. 11). Si tratta in realtà di passaggio
dalla sfera umana a quella divina.
Un’altra metafora, questa
di tipo giuridico, appare nell’inno cristologico di 1 Tm 3,16: «È stato giustificato
nello Spirito»: Dio gli ha reso giustizia. Una volta finito in croce senza che
il suo Dio avesse mosso un dito, tutte le sue rivendicazioni di essere
l’evangelista, a parole e a fatti, della regalità divina irrompente nella
storia, l’inviato definitivo di Dio nel mondo, erano state smentite non solo
agli occhi di aderenti e avversari, ma anche di Dio stesso. Essere finito sulla
croce stava a dire che Dio l’aveva rifiutato, essendo la croce un fatto
anch’esso teologico nella cultura religiosa ebraica del tempo: Dio non poteva
essere dalla parte del Crocifisso, visto come un maledetto (cf. Dt 21). Gesù
nella sua morte orrenda era stato sconfessato da Dio - almeno così tutti
pensavano, anche i suoi discepoli fuggiti in Galilea. Ora l’evento di pasqua,
espresso in termini giudiziari, dimostra che Dio gli ha reso giustizia,
legittimandolo, dandogli ragione. In lui si può confidare, la sua vicenda
terrena è rivelatrice, divina.
È chiaro così che la
risurrezione di Gesù non equivale alla vivificazione del suo cadavere. Come tale
era stata raccontata nei vangeli la risurrezione di Lazzaro, e anche quella
della figlia di Giairo.
Reali o presunte, erano
state animazioni di cadavere: i soggetti hanno ripreso la vita di prima, conclusasi
poi nella morte. Invece Gesù non è ritornato in vita, ma è stato risuscitato da
Dio come il Vivente (Ap 1,18), colui che non muore più (Rm 6,9). Ha ricevuto
una vita nuova, traboccante di
novità di vita per gli uomini. La sua risurrezione non sembra avere a che fare
col suo cadavere, come del resto la futura risurrezione di quelli che sono in
Cristo. Non per nulla Paolo, teologo avvertito, parla di corporeità,
distinguendo tra corpo psichico, animato da vita naturale, e corpo
"spirituale" - una contraddizione nella cultura greca -, cioè animato
completamente dallo Spirito (1 Cor 15,42ss.). E corpo non è una parte
dell’uomo, ma tutto l’uomo inteso come essere essenzialmente dialogico con Dio,
gli altri, il mondo. Perché secondo Paolo non abbiamo un corpo, ma siamo corpo
(R. Bultmann). Come risorto, Cristo è corpo "spirituale" alla massima
potenza, concentrato delle energie vitali dello Spirito di Dio. Per questo
l’Apostolo inorridirebbe davanti al nostro credo: «Credo nella risurrezione
della carne»; questa per lui è la dimensione caduca dell’uomo e persino
peccaminosa.
4/ I racconti evangelici
della tomba vuota
Nelle confessioni di fede
dei primi trent’anni non si parla di tomba vuota. Un racconto di scoperta di
tomba vuota appare per la prima volta in Mc 16,1-8: le donne, testimoni ai
piedi della croce della sua morte e sepoltura, che è sigillo di morte, il
mattino dopo il sabato vanno al sepolcro di Gesù e si accorgono che la pietra
grossa che ostruiva l’entrata era stata rimossa: l’ermeticamente chiuso è stato
aperto. In Ez 37,12 al popolo rinchiuso nella terra d’esilio risuona la parola
che comunica la decisione di Dio di "risuscitare" il popolo esiliato:
«Io aprirò le vostre tombe e vi farò risalire dai vostri sepolcri e vi
introdurrò nella terra d’Israele». La forza espressiva del simbolo: dalla
chiusura nel mondo della morte all’apertura verso la nuova vita. Si accorgono
poi che la tomba di Gesù è vuota. Vuol dire che il regno della morte adesso non
contiene più Gesù crocifisso, è vuoto di lui che ne è stato fatto uscire.
Infine le donne - ed è il vero centro del racconto - odono l’annuncio divino
recato da un messaggero celeste: «Voi cercate Gesù il Nazareno, il Crocifisso;
è stato risuscitato da Dio; non è qui».Tale significato metaforico della tomba
vuota è ancora più chiaro nel racconto parallelo di Lc 24,5 dove i messaggeri
celesti - non più uno, ma due - dicono alle donne perplesse: «Perché cercate il
vivente tra i morti?». Gesù non è più uno di loro; ne è evaso per la potenza di
Dio. La tomba vuota simboleggia appunto questa uscita dal regno dei morti, a
sua volta simboleggiato dalla tomba piena.
5/ Non è stato un miracolo
di timbro apologetico
Troppo spesso si è
guardato alla risurrezione di Gesù come a un miracolo che giustifica la fede;
ma non è così: costituisce invece il nucleo centrale della fede cristiana. «Se
Cristo non è il Risuscitato - e non è il Risuscitatore, dovremmo aggiungere in
linea con il pensiero dell’Apostolo - vuota di contenuto salvifico è la nostra
fede» (1 Cor 15,14). Vale a dire, l’esperienza del credere in lui non avrebbe
alcuna valenza di salvezza; e «voi siete ancora nei vostri peccati», continua
l’Apostolo (v. 17). Altrettanto varrebbe dell’annuncio evangelico: non sarebbe
portatore di una verace notizia di gioia da parte di Dio (ibid.).Sulla stessa
vulgata si muovono quanti fanno leva su quei racconti evangelici tardivi, Luca
e Giovanni, che a prima vista sembrano indulgere verso una verifica materiale
del Risorto: lo si tocca (Tommaso: Gv 20,24ss.), egli mangia con i suoi (Lc
24,43). In realtà sono racconti apologetici. Ad un certo punto le comunità
cristiane del I secolo sono state sollecitate dalle negazioni da parte giudaica
a scendere sul piano del confronto dialettico per far valere la propria fede
davanti agli oppositori. E non si è guardato per il sottile: tali racconti, non
privi d’ingenuità, con piglio diatribico difendono la realtà della risurrezione
di Cristo, non la sua materialità.Non per nulla lo stesso Giovanni racconta
della Maddalena che, andata al sepolcro, incontra nel giardino una persona
scambiata per il giardiniere – i suoi occhi non erano in grado di vedere la
realtà, bensì solo apparenze - e riconosce il Signore soltanto alla sua
chiamata per nome (Gv 20,llss.). Anche i discepoli di Emmaus non lo riconoscono
nel viandante unitesi a loro; non era individuabile visivamente; solo con gli
occhi della fede riconoscono il Signore nel segno eucaristico dello spezzare il
pane (Lc 24,13ss.).
6/ II Risuscitato abita
l’oggi dell’umanità
L’esperienza fatta da
Pietro e compagni è molto simile all’esperienza di tutti i credenti, con questa
diversità che però non cambia la sostanza del quadro: quelli avevano vissuto con
Gesù e hanno potuto vedere, in quello spirito che li ha animati dopo la
catastrofe del venerdì santo, lo Spirito di Gesù. Hanno potuto dirlo unendo i
ricordi del Gesù terreno con la loro nuova esperienza pasquale, esperienza di
grazia. Un’esperienza aperta come possibilità reale e non illusoria a tutti gli
uomini e sperimentata di fatto da quanti anticipano realmente per grazia nella
loro esistenza la risurrezione ultima. Risurrezione non solo di persone
singole, ma anche di gruppi e di popoli capaci, per grazia del Risorto, di
schiodarsi dal legno della croce, di creare vita anche sui campi di morte.
Perché Gesù resta nel tempo il Risuscitato che risuscita.
Lo stesso orizzonte di
"attualità" si apre per la signoria di Cristo risuscitato, signoria
sul mondo (cf. l’inno di Fl 2) e più direttamente nella vita delle persone. Una
signoria esclusiva, liberante e accolta. «Ci sono molti dèi e molti signori a
questo mondo», afferma Paolo riferendosi a una loro presenza nella vita degli
idolatri prostrati in ginocchio davanti al mondo e ai potenti della terra. In
un mondo pieno, nel senso detto, di dèi e signori, si distanzia decisamente il
noi dei credenti: «Ma per noi c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore,
Gesù Cristo» (1 Cor 8,4-8). Al monoteismo di tradizione ebraica Paolo abbina la
monosignoria di Gesù, capace di bandire dalla vita delle persone ogni signoria
alternativa. Sempre ai Corinzi l’Apostolo raccomanda: «Siete stati acquistati
in moneta sonante; non diventate schiavi di uomini» (1 Cor 7,23). Anche
l’affermazione di Cristo «il Signore» trova senso non in affermazioni astratte
dalla vita dell’assertore, bensì nel vissuto di chi, per usare una forte
espressione paolina, si fa schiavo del Signore (1 Cor 7,22), come egli afferma
ripetutamente di se stesso.
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