Se
ogni grande pensatore – secondo il filosofo Heidegger – è sempre
guidato da un unico pensiero, che svolge in molteplici variazioni, si
può affermare che il pensiero-guida della ricerca e della
riflessione teologica di Edward Schillebeeckx è una problematica di
frontiera, e precisamente il rapporto tra esperienza cristiana ed
esperienza umana. Teologo belga di lingua fiamminga, docente di
teologia prima a Lovanio, in Belgio, e successivamente (dal 1958)
alla facoltà di teologia dell’Università cattolica di Nimega, in
Olanda, la figura di Schillebeeckx ha incominciato a stagliarsi nel
panorama teologico ed ecclesiale nella prima metà degli anni
sessanta, in occasione del concilio ecumenico Vaticano II, al quale
ha partecipato come consulente teologico dell’allora dinamico
episcopato olandese. Una delle tematiche più innovative del
concilio, quella che, secondo l’enunciazione corrente, andava sotto
il nome di «chiesa e mondo», trovava, nelle conferenze e negli
articoli di questo teologo nordico, l’interprete più sensibile e
più acuto, come poi avrebbe documentato anche la serie dei volumi
dal titolo generale Sondaggi teologici (5 voll.,
1964-1972), che raccolgono i molteplici saggi, con i quali andava
accompagnando sia il dibattito conciliare, sia il dibattito teologico
in campo internazionale.
Nell’opera
di Edward Schillebeeckx (1914-2009) si possono distinguere due
periodi. Nel primo – da collocare tra gli inizi
della sua attività accademica nell’immediato dopoguerra, nel 1946,
e l’immediato postconcilio, nel 1966-1967 – la sua riflessione si
pone nella linea di un tomismo aperto: sono di questo primo periodo i
suoi studi sulla teologia dei sacramenti, come la ricostruzione
storica della teologia sacramentaria in L’economia
sacramentale della salvezza (1952) e la successiva trattazione
sistematica svolta in Cristo, sacramento dell’incontro
dell’uomo con Dio (1958). Gli scritti di questo periodo sono
caratterizzati dal metodo storico, che ricostruisce la storia della
dottrina prima di procedere alla elaborazione sistematica – metodo
appreso alla scuola di Le Saulchoir e alla École des Hautes Études
della Sorbona (dove l’ex-reggente di Le Saulchoir, Chenu, teneva
corsi di specializzazione); e dal prospettivismo gnoseologico,
appreso a Lovanio alla scuola di De Petter, che proponeva una sintesi
fra tomismo e fenomenologia.
Nel secondo periodo, che prende inizio nell’immediato postconcilio e che trova la sua prima espressione nelle conferenze americane del 1967, Dio, il futuro dell’uomo, avviene – come avverte il teologo nordamericano Robert Schreiter, già discepolo di Schillebeeckx a Nimega e uno dei migliori conoscitori della sua teologia – un «notevole cambiamento». A partire da qui si attua una svolta, che porta il teologo domenicano ad abbandonare il tomismo di scuola (anche nella reinterpretazione dei suoi maestri lovaniensi e parigini), che nelle opere precedenti rappresentava il quadro concettuale di riferimento, per confrontarsi con le nuove ermeneutiche e per dialogare più direttamente con l’esperienza dell’uomo secolare della modernità e della contemporaneità. In questo secondo periodo – il più originale e creativo – il teologo di Nimega è alle prese con la problematica ermeneutica, che introduce nella teologia sistematica cattolica, e che applica con rigore e radicalità al cuore stesso della trattatistica teologica, e cioè alla cristologia.
La teoria ermeneutica pone il problema della interpretazione, e cioè della intelligibilità dei testi della rivelazione, della loro attualizzazione e della rilevanza esperienziale delle formule di fede. Essa aveva fatto il suo ingresso nella teologia evangelica con l’ermeneutica di Schleiermacher, e decisamente nel nostro secolo con l’ermeneutica esistenziale di Bultmann, di Fuchs e di Ebeling negli anni quaranta e cinquanta. L’intento dei saggi ermeneutici di Schillebeeckx – raccolti nel quinto volume dei suoi Sondaggi teologici con il titolo Intelligenza della fede (1972) – è quello di offrire un contributo all’introduzione dell’ermeneutica nella teologia sistematica cattolica.
La teologia cattolica postconciliare, che incominciava a confrontarsi con la cultura secolare, si è resa conto che le fonti della riflessione teologica sono due: la rivelazione e la tradizione cristiana, da una parte, e l’esperienza umana, dall’altra. E il lavoro ermeneutico da svolgere è quello di operare una costante correlazione tra le due fonti (o i due poli): fede cristiana e esperienza umana. Ma la stessa fede, come adesione alla rivelazione (prima fonte della teologia), ha una struttura esperienziale; la fede è una esperienza, ed è una esperienza con esperienze, e cioè è esperienza cristiana con esperienze umane (l’esperienza di sé e del mondo che i cristiani hanno come esseri umani). All’inizio non vi è una dottrina, ma «incominciò con una ben precisa esperienza», che ha messo in atto una «storia di esperienze», che continua.
Alle origini del Nuovo Testamento, infatti, vi è un incontro di Gesù con i suoi discepoli, i quali, in questo incontro, «sconvolgente e travolgente», hanno fatto un’esperienza-di-salvezza, che hanno poi interpretato e fissato per iscritto. Anche l’interpretazione fa parte dell’esperienza, in quanto ogni esperienza contiene elementi interpretativi, è un percepire interpretando. Il Nuovo Testamento è, in definitiva, il resoconto di un’esperienza-di-salvezza interpretata: l’esperienza si cala in un messaggio, e il messaggio si trasmette generando nell’uditore un’esperienza-di-vita. Il messaggio rimanda ad un’esperienza come origine e attiva esperienza come risultato. La rivelazione divina non è, alla sua origine, una dottrina, bensì la libera iniziativa di Dio che si comunica manifestandosi in fatti, che determinano un’esperienza-di-salvezza, la quale viene interpretata e fissata in un messaggio scritto. Il messaggio contiene una dottrina, ma non è la dottrina l’elemento primario, bensì l’esperienza. La dottrina è come un riordinare sul piano della riflessione e dell’approfondimento quel contenuto di esperienze, che sta alle origini, e serve alla trasmissione e alla attivazione di una tale esperienza-di-salvezza. E pertanto ci si inserisce nella viva tradizione cristiana facendo esperienza: «In definitiva si tratta comunque di una storia cristiana d’esperienza che continua».
Ma perché la «storia cristiana d’esperienza» continui, il messaggio trasmesso dev’essere comprensibile anche per l’uomo d’oggi, e non solo da accettare sulla base di un’autorità istituzionale che lo media. Nella società secolare l’esperienza religiosa non è più una high experience, un’esperienza forte generalizzata, ma si configura come «esperienza con esperienze»; essa deve dunque inserirsi nel contesto delle esperienze umane secolari per farsi convinzione ed esperienza personale. Il messaggio della tradizione dev’essere proposto in una «catechesi d’esperienza» come interpretazione possibile delle esperienze umane, come «progetto di ricerca» per la ricerca di senso dell’essere umano e deve poter venire sperimentato come «risposta di liberazione» agli interrogativi vitali che l’essere umano si pone. La teologia è chiamata a tener aperta la comunicazione tra i contenuti tradizionali della fede e l’esperienza umana, in una costante correlazione critica tra le due fonti, la tradizione biblica (prima fonte) e il nostro mondo attuale di esperienza e di vita (seconda fonte).
Il teologo fiammingo ha affrontato concretamente questo impegno in un vasto «progetto cristologico» in tre fitti volumi: Gesù, la storia di un vivente (1974), dove l’esperienza cristiana fondamentale è analizzata nella corrente sinottica; Il Cristo, la storia di una nuova prassi (1977), dove l’esperienza cristiana fondamentale è analizzata nelle altre correnti neotestamentarie, in particolare nel paolinismo e nel giovannismo, e dove, in una suggestiva sintesi conclusiva si individuano gli elementi strutturali sia della tradizione cristologica della chiesa, sia dell’esperienza dell’uomo secolare; Umanità, la storia di Dio (1989), dove si mostra come il cuore del messaggio cristiano, salvezza-in-Gesù-da-parte-di-Dio, possa essere di nuovo sperimentato nella storia dell’umanità.
Questi tre volumi del teologo di Nimega rappresentano l’opera cristologica più vasta e più creativa del nostro secolo. Essa è innovativa sotto il profilo metodologico: Schillebeeckx non segue il filo conduttore della tradizione della chiesa (come generalmente avviene nelle trattazioni cristologiche), ma accetta la sfida di negazioni radicali, praticando con radicalità il metodo storico-critico. Schillebeeckx intende mettere in opera un sapere storico che sia il più intransigente possibile, ma la sua ricerca storica è sostenuta dall’intento teologico di ricostruire la genesi della confessione cristologica della chiesa e di mostrare la sua pertinenza anche per i contemporanei della città secolare. Il metodo è in sé legittimo e non porta ad una razionalizzazione del fatto cristologico; la discussione che ne è seguita – anche a livello ufficiale – riguarda solo alcune modalità di esecuzione di quello che può essere chiamato un vero e proprio «esperimento in cristologia».
Schillebeeckx non ritiene che la secolarizzazione invalidi il discorso teologico, in quanto l’autocomprensione umana secolare rimane aperta al mistero, come si può evincere dalla fiducia radicale nella realtà, dall’impegno per gli altri, dall’istanza di realizzare il bene e dalla lotta contro il male. Piuttosto la secolarizzazione risitua il discorso teologico e compito dell’ermeneutica è quello di aiutare a determinare una situazione che permetta all’autocomprensione secolare di trascendersi e di dischiudersi al mistero della vita e della realtà, che ha trovato decisiva e definitiva rivelazione nella figura del Cristo. Gli asserti di fede e gli enunciati teologici non sono deducibili dall’esperienza, ma devono avere la copertura dell’esperienza, ossia devono essere in grado di illuminare l’esperienza, di parlare all’esperienza dell’uomo secolare; altrimenti non sono difendibili e si arriverebbe ad una rottura di comunicazione.
Per ottenere questo la teologia deve costantemente porre in correlazione la risposta della fede con la domanda umana, che scaturisce dall’esperienza. E questa correlazione la si ottiene, se la domanda umana è configurabile comedomanda di senso sulla realtà e sull’esistenza, a cui seguono risposte umane che tentano di articolare un senso, ma che riceve solo dalla risposta cristiana una sovrabbondanza di senso, un senso ultimo e definitivo. La risposta cristiana è, allora, la risposta risolutiva al cercare umano, che si articola in domanda radicale e in risposte parziali. Alla domanda radicale sulla realtà risponde in modo radicale solo la fede, ma la risposta cristiana non cade perpendicolarmente dall’alto, ma si inserisce in un contesto di esperienze in cui acquista senso, donando sovrabbondanza di senso. E questa sovrabbondanza di senso deve dar prova di sé non solo nella teoria, ma deve scendere anche sul terreno della prassi. In questo senso si parla di «ermeneutica dell’esperienza e della prassi».
Nel secondo periodo, che prende inizio nell’immediato postconcilio e che trova la sua prima espressione nelle conferenze americane del 1967, Dio, il futuro dell’uomo, avviene – come avverte il teologo nordamericano Robert Schreiter, già discepolo di Schillebeeckx a Nimega e uno dei migliori conoscitori della sua teologia – un «notevole cambiamento». A partire da qui si attua una svolta, che porta il teologo domenicano ad abbandonare il tomismo di scuola (anche nella reinterpretazione dei suoi maestri lovaniensi e parigini), che nelle opere precedenti rappresentava il quadro concettuale di riferimento, per confrontarsi con le nuove ermeneutiche e per dialogare più direttamente con l’esperienza dell’uomo secolare della modernità e della contemporaneità. In questo secondo periodo – il più originale e creativo – il teologo di Nimega è alle prese con la problematica ermeneutica, che introduce nella teologia sistematica cattolica, e che applica con rigore e radicalità al cuore stesso della trattatistica teologica, e cioè alla cristologia.
La teoria ermeneutica pone il problema della interpretazione, e cioè della intelligibilità dei testi della rivelazione, della loro attualizzazione e della rilevanza esperienziale delle formule di fede. Essa aveva fatto il suo ingresso nella teologia evangelica con l’ermeneutica di Schleiermacher, e decisamente nel nostro secolo con l’ermeneutica esistenziale di Bultmann, di Fuchs e di Ebeling negli anni quaranta e cinquanta. L’intento dei saggi ermeneutici di Schillebeeckx – raccolti nel quinto volume dei suoi Sondaggi teologici con il titolo Intelligenza della fede (1972) – è quello di offrire un contributo all’introduzione dell’ermeneutica nella teologia sistematica cattolica.
La teologia cattolica postconciliare, che incominciava a confrontarsi con la cultura secolare, si è resa conto che le fonti della riflessione teologica sono due: la rivelazione e la tradizione cristiana, da una parte, e l’esperienza umana, dall’altra. E il lavoro ermeneutico da svolgere è quello di operare una costante correlazione tra le due fonti (o i due poli): fede cristiana e esperienza umana. Ma la stessa fede, come adesione alla rivelazione (prima fonte della teologia), ha una struttura esperienziale; la fede è una esperienza, ed è una esperienza con esperienze, e cioè è esperienza cristiana con esperienze umane (l’esperienza di sé e del mondo che i cristiani hanno come esseri umani). All’inizio non vi è una dottrina, ma «incominciò con una ben precisa esperienza», che ha messo in atto una «storia di esperienze», che continua.
Alle origini del Nuovo Testamento, infatti, vi è un incontro di Gesù con i suoi discepoli, i quali, in questo incontro, «sconvolgente e travolgente», hanno fatto un’esperienza-di-salvezza, che hanno poi interpretato e fissato per iscritto. Anche l’interpretazione fa parte dell’esperienza, in quanto ogni esperienza contiene elementi interpretativi, è un percepire interpretando. Il Nuovo Testamento è, in definitiva, il resoconto di un’esperienza-di-salvezza interpretata: l’esperienza si cala in un messaggio, e il messaggio si trasmette generando nell’uditore un’esperienza-di-vita. Il messaggio rimanda ad un’esperienza come origine e attiva esperienza come risultato. La rivelazione divina non è, alla sua origine, una dottrina, bensì la libera iniziativa di Dio che si comunica manifestandosi in fatti, che determinano un’esperienza-di-salvezza, la quale viene interpretata e fissata in un messaggio scritto. Il messaggio contiene una dottrina, ma non è la dottrina l’elemento primario, bensì l’esperienza. La dottrina è come un riordinare sul piano della riflessione e dell’approfondimento quel contenuto di esperienze, che sta alle origini, e serve alla trasmissione e alla attivazione di una tale esperienza-di-salvezza. E pertanto ci si inserisce nella viva tradizione cristiana facendo esperienza: «In definitiva si tratta comunque di una storia cristiana d’esperienza che continua».
Ma perché la «storia cristiana d’esperienza» continui, il messaggio trasmesso dev’essere comprensibile anche per l’uomo d’oggi, e non solo da accettare sulla base di un’autorità istituzionale che lo media. Nella società secolare l’esperienza religiosa non è più una high experience, un’esperienza forte generalizzata, ma si configura come «esperienza con esperienze»; essa deve dunque inserirsi nel contesto delle esperienze umane secolari per farsi convinzione ed esperienza personale. Il messaggio della tradizione dev’essere proposto in una «catechesi d’esperienza» come interpretazione possibile delle esperienze umane, come «progetto di ricerca» per la ricerca di senso dell’essere umano e deve poter venire sperimentato come «risposta di liberazione» agli interrogativi vitali che l’essere umano si pone. La teologia è chiamata a tener aperta la comunicazione tra i contenuti tradizionali della fede e l’esperienza umana, in una costante correlazione critica tra le due fonti, la tradizione biblica (prima fonte) e il nostro mondo attuale di esperienza e di vita (seconda fonte).
Il teologo fiammingo ha affrontato concretamente questo impegno in un vasto «progetto cristologico» in tre fitti volumi: Gesù, la storia di un vivente (1974), dove l’esperienza cristiana fondamentale è analizzata nella corrente sinottica; Il Cristo, la storia di una nuova prassi (1977), dove l’esperienza cristiana fondamentale è analizzata nelle altre correnti neotestamentarie, in particolare nel paolinismo e nel giovannismo, e dove, in una suggestiva sintesi conclusiva si individuano gli elementi strutturali sia della tradizione cristologica della chiesa, sia dell’esperienza dell’uomo secolare; Umanità, la storia di Dio (1989), dove si mostra come il cuore del messaggio cristiano, salvezza-in-Gesù-da-parte-di-Dio, possa essere di nuovo sperimentato nella storia dell’umanità.
Questi tre volumi del teologo di Nimega rappresentano l’opera cristologica più vasta e più creativa del nostro secolo. Essa è innovativa sotto il profilo metodologico: Schillebeeckx non segue il filo conduttore della tradizione della chiesa (come generalmente avviene nelle trattazioni cristologiche), ma accetta la sfida di negazioni radicali, praticando con radicalità il metodo storico-critico. Schillebeeckx intende mettere in opera un sapere storico che sia il più intransigente possibile, ma la sua ricerca storica è sostenuta dall’intento teologico di ricostruire la genesi della confessione cristologica della chiesa e di mostrare la sua pertinenza anche per i contemporanei della città secolare. Il metodo è in sé legittimo e non porta ad una razionalizzazione del fatto cristologico; la discussione che ne è seguita – anche a livello ufficiale – riguarda solo alcune modalità di esecuzione di quello che può essere chiamato un vero e proprio «esperimento in cristologia».
Schillebeeckx non ritiene che la secolarizzazione invalidi il discorso teologico, in quanto l’autocomprensione umana secolare rimane aperta al mistero, come si può evincere dalla fiducia radicale nella realtà, dall’impegno per gli altri, dall’istanza di realizzare il bene e dalla lotta contro il male. Piuttosto la secolarizzazione risitua il discorso teologico e compito dell’ermeneutica è quello di aiutare a determinare una situazione che permetta all’autocomprensione secolare di trascendersi e di dischiudersi al mistero della vita e della realtà, che ha trovato decisiva e definitiva rivelazione nella figura del Cristo. Gli asserti di fede e gli enunciati teologici non sono deducibili dall’esperienza, ma devono avere la copertura dell’esperienza, ossia devono essere in grado di illuminare l’esperienza, di parlare all’esperienza dell’uomo secolare; altrimenti non sono difendibili e si arriverebbe ad una rottura di comunicazione.
Per ottenere questo la teologia deve costantemente porre in correlazione la risposta della fede con la domanda umana, che scaturisce dall’esperienza. E questa correlazione la si ottiene, se la domanda umana è configurabile comedomanda di senso sulla realtà e sull’esistenza, a cui seguono risposte umane che tentano di articolare un senso, ma che riceve solo dalla risposta cristiana una sovrabbondanza di senso, un senso ultimo e definitivo. La risposta cristiana è, allora, la risposta risolutiva al cercare umano, che si articola in domanda radicale e in risposte parziali. Alla domanda radicale sulla realtà risponde in modo radicale solo la fede, ma la risposta cristiana non cade perpendicolarmente dall’alto, ma si inserisce in un contesto di esperienze in cui acquista senso, donando sovrabbondanza di senso. E questa sovrabbondanza di senso deve dar prova di sé non solo nella teoria, ma deve scendere anche sul terreno della prassi. In questo senso si parla di «ermeneutica dell’esperienza e della prassi».
La
teologia di Schillebeeckx non cerca la contrapposizione e lo scontro
con la cultura secolare – è questo l’atteggiamento del pensiero
religioso fondamentalista, anche di firma cattolica – ma si fa
partecipe della ricerca umana, si rende attenta ai molteplici
progetti antropologici, che va elaborando la cultura secolare, i
quali, pur nella loro frammentazione, si rivelano come tematizzazione
di un’esperienza universale di ricerca di senso, che rimanda ad un
orizzonte di pienezza di umanità, che è l’orizzonte della
fede.
Una teologia, dunque, che ha vivo il senso dell’integrità dell’Humanum, nelle sue dimensioni antropologica, sociale e culturale, teorica e pratica, utopica e religiosa. Una teologia, che elabora una soteriologia in chiave moderna, in quanto guidata dalla preoccupazione, in senso negativo, per l’humanum minacciato (Bloch) e per la storia di sofferenza e di morte dell’umanità; e, in senso positivo, per il souhaitable humain (Ricoeur) come pienezza e integrità dell’humanum: entrambe le preoccupazioni sono condivise, al loro livello, dai movimenti secolari di emancipazione e di liberazione, ma trovano nella salvezza cristiana radicalità e pienezza di interpretazione e di senso. Non si può parlare della salvezza cristiana, saltando, o censurando, o denigrando la storia della emancipazione/liberazione umana per far posto alla salvezza religiosa. Ciò che unifica la cultura nell’epoca moderna e contemporanea è la ricerca non di una salvezza esclusivamente religiosa, come poteva avvenire in epoche passate, bensì la ricerca di un’umanità sana, integra e degna di essere vissuta. Tutte le scienze, che non esistevano nelle epoche passate, lavorano in questa direzione. La redenzione cristiana non è riconducibile alla emancipazione/liberazione storica, ma ad essa «rimane tuttavia legata da un rapporto critico di solidarietà». Rovesciando il titolo di un best-seller dei primi anni sessanta, Honest to God («Onesti con Dio») – che a suo tempo trovò nel teologo di Nimega uno dei recensori più lucidi –, si potrebbe caratterizzare l’istanza che guida la riflessione – ermeneutica, cristologica e teologica – di Edward Schillebeeckx, con la richiesta di essere «onesti con il mondo».
Schillebeeckx è stato un teologo di frontiera, con antenne tra le più sensibili per captare e mettere a tema il rapporto tra Chiesa e mondo (com’ebbe a riconoscere il suo confratello, il grande Congar).
È stato un teologo fedele alla sua comunità, ma che pensava e argomentava nell’agorà della città secolare, anzi, ancora più, e in anticipo, nell’agorà della società del secolarismo e del pluralismo culturale e religioso. In questo senso, un libro da riprendere è il volume conclusivo della sua trilogia cristologica, Umanità: la storia di Dio, dove la chiesa è delineata, con dottrina e afflato spirituale, come «comunità di grazia» nella «comunità mondiale».
Negli anni Duemila era apparsa l’edizione francese della sua prima voluminosa opera De sacramentele Heilseconomie (Anvers 1952): L’économie sacramentelle du salut (Fribourg, Suisse 2004). Il capitolo finale (aggiunto), Vers une redécouverte des sacraments chrétiens, che risale all’anno 2000, è come l’abbozzo essenziale di una teologia dei sacramenti, alla quale lavorava, nonostante difficoltà di salute, negli ultimi anni.
Una teologia, dunque, che ha vivo il senso dell’integrità dell’Humanum, nelle sue dimensioni antropologica, sociale e culturale, teorica e pratica, utopica e religiosa. Una teologia, che elabora una soteriologia in chiave moderna, in quanto guidata dalla preoccupazione, in senso negativo, per l’humanum minacciato (Bloch) e per la storia di sofferenza e di morte dell’umanità; e, in senso positivo, per il souhaitable humain (Ricoeur) come pienezza e integrità dell’humanum: entrambe le preoccupazioni sono condivise, al loro livello, dai movimenti secolari di emancipazione e di liberazione, ma trovano nella salvezza cristiana radicalità e pienezza di interpretazione e di senso. Non si può parlare della salvezza cristiana, saltando, o censurando, o denigrando la storia della emancipazione/liberazione umana per far posto alla salvezza religiosa. Ciò che unifica la cultura nell’epoca moderna e contemporanea è la ricerca non di una salvezza esclusivamente religiosa, come poteva avvenire in epoche passate, bensì la ricerca di un’umanità sana, integra e degna di essere vissuta. Tutte le scienze, che non esistevano nelle epoche passate, lavorano in questa direzione. La redenzione cristiana non è riconducibile alla emancipazione/liberazione storica, ma ad essa «rimane tuttavia legata da un rapporto critico di solidarietà». Rovesciando il titolo di un best-seller dei primi anni sessanta, Honest to God («Onesti con Dio») – che a suo tempo trovò nel teologo di Nimega uno dei recensori più lucidi –, si potrebbe caratterizzare l’istanza che guida la riflessione – ermeneutica, cristologica e teologica – di Edward Schillebeeckx, con la richiesta di essere «onesti con il mondo».
Schillebeeckx è stato un teologo di frontiera, con antenne tra le più sensibili per captare e mettere a tema il rapporto tra Chiesa e mondo (com’ebbe a riconoscere il suo confratello, il grande Congar).
È stato un teologo fedele alla sua comunità, ma che pensava e argomentava nell’agorà della città secolare, anzi, ancora più, e in anticipo, nell’agorà della società del secolarismo e del pluralismo culturale e religioso. In questo senso, un libro da riprendere è il volume conclusivo della sua trilogia cristologica, Umanità: la storia di Dio, dove la chiesa è delineata, con dottrina e afflato spirituale, come «comunità di grazia» nella «comunità mondiale».
Negli anni Duemila era apparsa l’edizione francese della sua prima voluminosa opera De sacramentele Heilseconomie (Anvers 1952): L’économie sacramentelle du salut (Fribourg, Suisse 2004). Il capitolo finale (aggiunto), Vers une redécouverte des sacraments chrétiens, che risale all’anno 2000, è come l’abbozzo essenziale di una teologia dei sacramenti, alla quale lavorava, nonostante difficoltà di salute, negli ultimi anni.
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