All'epoca
della riforma protestante, una delle questioni più dibattute fu
quella cosiddetta del "calice ai laici", ossia della
possibilità, o meno, che i laici potessero accostarsi all'eucaristia
non solo ricevendo l'ostia consacrata, ma anche bevendo al calice,
sino ad allora riservato ai soli sacerdoti celebranti. Non mancarono,
in relazione a questa disputa, le prese di distanza e persino le
scomuniche.
Col
trascorrere del tempo ci si è resi conto che la questione non aveva,
di per sé, serie implicazioni dottrinali e la prassi della Chiesa è
andata cambiando, sino a quando (con la Eucharisticum mysterium,
1967, cf 32) si è riconosciuto che la comunione sotto le due specie
era "la forma più piena" di partecipazione all'eucaristia
ed essa è stata conseguentemente permessa in una serie di casi. Oggi
nulla osta a questa "forma più piena", salvo contingenti
ragioni di ordine pratico.
Questo
precedente storico – che mette in guardia contro il rischio di
assolutizzare e rendere immutabili prassi ecclesiali che non hanno un
preciso fondamento dottrinale – è stato qui richiamato per
introdurre una riflessione, volutamente un poco provocatoria, in
ordine a un altro problema (o forse addirittura a un vero e proprio
tabù) che potrebbe essere sintetizzato nella formula dell'omelia ai
laici ("anche" ai laici, ovviamente, nessuno mettendo in
discussione il dirittodovere dei presbiteri e dei diaconi a
pronunziare l'omelia). A che punto è la questione? Sullo sfondo del
mutato contesto pastorale e alla luce delle indicazioni conciliari,
l'attuale prassi deve essere considerata immutabile?.
La
lezione della storia.
La
partecipazione dei laici alla predicazione e all'annunzio della
Parola è attestata, per i primi secoli della Chiesa, da
numerosissime fonti. Nelle assemblee domenicali non mancavano i laici
che intervenivano per commentare e dare attuazione pratica alle
indicazioni delle Scritture; le stesse messe in guardia di Paolo
contro la presa di parola delle donne nelle assemblee ecclesiali
attestano indirettamente che tale prassi era diffusa (anche se non
condivisa dall'Apostolo).
Questa
prassi è continuata per tutto il corso del Medioevo – come attesta
in particolare il caso di Francesco d'Assisi, laico per gran parte
della sua vita – anche se in genere tale predicazione non ha
riguardato l'omelia nella messa. Alla luce della storia della Chiesa
– che qui non si può ripercorrere – non vi è dubbio che i laici
abbiano avuto largo accesso alla predicazione, almeno sino alla
riforma protestante. È ad essa – e alla critica radicale da essa
portata alla specificità del ministero sacerdotale, sino alla
negazione del carattere sacramentale dell'ordine – che si deve la
sempre più marcata diffidenza nei confronti della predicazione dei
laici che ha caratterizzato la prassi ecclesiale dopo il concilio di
Trento: con una particolare accentuazione del divieto dei laici a
predicare nella specifica sede della messa.
È
in linea con questa tradizione che il Codice di diritto
canonico del 1983 da un lato ha riconosciuto che «i laici
possono essere ammessi a predicare in una chiesa o in un oratorio, se
in determinate circostanze lo richieda la necessità o in casi
particolari l'utilità lo consigli» (can. 766: norma che,
in verità, ha avuto una limitatissima applicazione), ma dall'altro
lato ha ribadito (can. 767) che l'omelia, in quanto «parte della
stessa liturgia» è «riservata al sacerdote o al diacono», e
dunque non può essere affidata né ai laici né ai religiosi. La
norma appare estremamente rigida e non prevede alcuna eccezione, in
nessun caso: salvo il presbitero o il diacono, nessuno può tenere
l'omelia. Il can. 767 è al riguardo estremamente chiaro.
È
appunto su questa norma, sulla sua fondatezza e sull'eventuale
revisione, che si vorrebbe qui richiamare l'attenzione: in un'ottica
che non è dottrinale ma esclusivamente pastorale. D'altra parte
sarebbe difficile sostenere che il citato can. 767, quello appunto
che vieta l'omelia ai laici e anche ai religiosi non ordinati, abbia
carattere "dottrinale", soprattutto dopo quanto il Concilio
in più luoghi ha affermato circa il sacerdozio comune dei fedeli, la
dignità dei laici, uomini e donne, nella Chiesa, il necessario
accesso di tutti alla parola di Dio, e via di seguito.
Problemi
di oggi, e di domani
Chi
scrive è un laico che ha alle spalle oltre mezzo secolo di attiva e
frequente partecipazione alle celebrazioni eucaristiche e che nel
corso della sua vita ha ascoltato migliaia di omelie (pressoché
tutte di presbiteri, e ovviamente di vescovi, e quasi nessuna di
diaconi, nonostante il ripristino, voluto dal Vaticano II, del
diaconato permanente); ma ha, nello stesso tempo, ascoltato
confidenze, talora malinconiche se non addirittura sdegnate, di amici
laici fedeli alla Chiesa ma nello stesso tempo critici dello stile,
della qualità, talora dell'eccessiva brevità o al contrario
dell'eccessiva lunghezza delle omelie. Non mancano del resto indagini
di sociologia religiosa su questo tema e ad esse si potrà attingere
per una più ampia valutazione del problema, che tuttavia qui viene
affrontato non sotto il profilo dei contenuti, dello stile, tanto
meno della durata, ma esclusivamente dal punto di vista del soggetto
dell'omelia. La norma di cui al can. 767 si fonda,
implicitamente, sul fatto che vi siano presbiteri, o diaconi, in
condizione di tenere l'omelia. Ma questo presupposto può essere dato
per scontato nell'attuale situazione pastorale, e soprattutto in
relazione alle prospettive che si aprono per il domani? È su questo
punto che si svolgeranno qui brevi considerazioni, in atteggiamento
di fedeltà (ma di una fedeltà creativa e non ripetitiva) al
magistero della Chiesa.
Esistono
almeno tre ordini di motivazioni che rendono, a nostro avviso,
opportuna una revisione – o, meglio ancora, una più saggia e
aperta interpretazione – del citato canone.
1) In
primo luogo si deve prendere atto del progressivo invecchiamento
dei presbiteri in Italia (e non solo) e del numero limitato di
diaconi permanenti ordinati (circa un decimo dei presbiteri, e
praticamente assenti, per scelta dei vescovi, in numerose diocesi).
Un sacerdote anziano – e a molti di essi va un sincero e grato
apprezzamento – può degnamente celebrare l'eucaristia; ma talora,
col progredire dell'età, ha serie difficoltà a preparare, tenere,
rendere materialmente udibile l'omelia: ogni fedele può citare al
riguardo personali esperienze, imbarazzanti spesso per chi le vive,
sull'altare e ai piedi dell'altare. In queste situazioni l'omelia è
di fatto assente e i fedeli che partecipano alla messa sono dunque
privati della riflessione sulla parola di Dio. Altro è poter
continuare a celebrare degnamente la messa, altro è pronunziare
altrettanto degnamente l'omelia.
2) In
secondo luogo si deve prendere atto delle presenze, ormai numerose,
di sacerdoti di altri Paesi, la cui conoscenza della lingua italiana
è inevitabilmente parziale e limitata e le cui omelie risultano
spesso di difficile comprensibilità. Almeno nella fase iniziale
dell'esercizio del loro ministero, altre voci potrebbero integrarle
o, al limite, temporaneamente supplirle. È relativamente marginale,
ma non insignificante, il caso delle aree linguistiche non italiane
presenti nel nostro Paese in cui talora si verificano situazioni
analoghe (sono numerosi i turisti che in Alto Adige assistono a una
messa all'interno della quale l'omelia è tenuta solo in lingua
tedesca).
3) Infine
va tenuta presente la prassi – assai frequente in Italia – della
lunga permanenza dei presbiteri, specialmente dei sacerdoti secolari,
nelle medesime aree e parrocchie: sacerdoti spesso amati e venerati,
le cui omelie (ascoltate dieci, venti, trenta volte sugli stessi
ricorrenti testi) presentano per i fedeli abituali pochi elementi di
novità. Per esperienza diretta – e di non pochi amici – oso
affermare che vi sono temi (per esempio l'etica delle professioni, in
relazione a testi che pure suggerirebbero questo tema) che alcuni
sacerdoti non affrontano mai. V'è chi ha commentato venti volte il
noto testo matteano del «date a Cesare » senza mai fare riferimento
al dovere di pagare le tasse...
Come
si conciliano i fenomeni ai quali si è fatto riferimento non solo
con il dovere del presbitero di tenere l'omelia, ma anche con il
diritto dei fedeli laici ad avere un'omelia di sufficiente qualità,
non ricorrente e talora monotona insistenza sugli stessi temi, ma
lucida e vasta apertura ai problemi che di volta in volta la parola
di Dio pone davanti alle più mature e responsabili coscienze
cristiane? È proprio "di diritto divino" o verità proxima
fidei che solo gli uomini presbiteri-diaconi possono rivolgersi ai
fedeli nel corso della celebrazione eucaristica (in altre sedi, per
fortuna, questo divieto non si pone in essere)?
La Chiesa ha bisogno di respirare a "due polmoni",
ma anche di parlare a "due bocche".
Maschile
e femminileSia a questo punto consentito un
piccolo excursus relativo alla presenza del "maschile"
e del "femminile" nella predicazione cristiana. La storia
ha tramandato la forza delle parole che nella Chiesa e per la Chiesa
hanno pronunziato donne insigni, nella linea che va da Ildegarda di
Bingen e Caterina da Siena del Medioevo a quella che raggiunge, nel
nostro tempo, persone come Madeleine Delbrêl, Teresa di Calcutta,
Chiara Lubich... Nessuna di loro, per quanto sappia, ha mai tenuto
"omelie" in senso tecnico: ma quale influenza hanno avuto
sulla Chiesa, e quale apporto esse hanno dato alla vita cristiana!
Sarebbe stato poi tanto "scandaloso" che qualche volta
l'una o l'altra di queste donne avesse commentato dal pulpito quella
parola di Dio di cui sono state esemplari annunciatrici?
Certo,
vi è posto per questa "parola al femminile" nella Chiesa,
né mancano gli spazi che ancora oggi possono essere degnamente, e
pacificamente, occupati da donne; ma non costituirebbe un ulteriore
arricchimento se donne particolarmente competenti e preparate –
religiose e laiche – potessero prendere la parola anche durante il
momento più alto della vita cristiana, e cioè la celebrazione della
messa? Vi è da domandarsi se al fondamento di questa esclusione –
oltre le ben note ragioni storiche – non vi siano anche motivazioni
propriamente sociologiche, come tali contingenti e transeunti?
Oltre
tutto, la crescente consapevolezza della "bipolarità"
maschile-femminile fa sempre più chiaramente comprendere che la
Chiesa (per riprendere, in altra prospettiva, una espressione cara a
Giovanni Paolo II) ha bisogno non solo di "respirare" a due
polmoni ma anche di parlare "a due bocche": e ciò potrebbe
contribuire non poco a ridurre la distanza, a volte un vero e proprio
fossato, che separa il mondo femminile "adulto" (quello più
colto, più preparato, più impegnato nella società) dalla Chiesa
cattolica di oggi.
Tenere
l'omelia, una facoltà che dovrebbe essere accordata soltanto a
uomini e donne preparati.
Le
possibili soluzioni
Di fronte a questo problema, che già ora ma ancor più fra alcuni anni, almeno in Italia, assumerà proporzioni drammatiche, è possibile seguire le scorciatoie o imboccare la via maestra. La "scorciatoia" – perché di essa, di fatto, si tratta – è quella di "aggirare" il divieto di cui sopra si è detto, in due diverse maniere: affidando ai laici nel corso della celebrazione brevi "introduzioni" alle letture del giorno; oppure trasformando le preghiere dei fedeli, pacificamente attribuibili ai laici, in "piccole omelie". A proposito tanto del primo quanto del secondo tipo di intervento non mancano perplessità e riserve. Due sono infatti le obiezioni che si possono muovere a questi improvvisati (e camuffati) "omileti": da una parte essi, anche perché non presentati esplicitamente alla comunità come omileti, non hanno di fatto alcuna autorità (e spesso, occorre dirlo, non sono nemmeno adeguatamente preparati); dall'altra manca, in un talora affrettato "volontariato", una verifica della loro competenza e preparazione.
Di fronte a questo problema, che già ora ma ancor più fra alcuni anni, almeno in Italia, assumerà proporzioni drammatiche, è possibile seguire le scorciatoie o imboccare la via maestra. La "scorciatoia" – perché di essa, di fatto, si tratta – è quella di "aggirare" il divieto di cui sopra si è detto, in due diverse maniere: affidando ai laici nel corso della celebrazione brevi "introduzioni" alle letture del giorno; oppure trasformando le preghiere dei fedeli, pacificamente attribuibili ai laici, in "piccole omelie". A proposito tanto del primo quanto del secondo tipo di intervento non mancano perplessità e riserve. Due sono infatti le obiezioni che si possono muovere a questi improvvisati (e camuffati) "omileti": da una parte essi, anche perché non presentati esplicitamente alla comunità come omileti, non hanno di fatto alcuna autorità (e spesso, occorre dirlo, non sono nemmeno adeguatamente preparati); dall'altra manca, in un talora affrettato "volontariato", una verifica della loro competenza e preparazione.
Alquanto
diversa – ma essa pure, va detto schiettamente, è una
"scorciatoia" – è la formula in qualche parte
sperimentata, anche indipendentemente dalla disponibilità di validi
omileti, di introdurre all'inizio della messa le letture che
seguiranno e di cui si presentano i tratti più importanti. Non
trattandosi di "omelia", tale prassi non può considerarsi
inammissibile; ma essa ha l'inconveniente di presentare e commentare
letture non ancora ascoltate (e talora riguarda tematiche del tutto
estranee ai testi scritturistici, magari in forma di presentazione
della "Giornata missionaria") e di allungare, talora
ripetitivamente, la celebrazione, se all'introduzione segue, come
spesso accade (anche in virtù della norma secondo la quale –
sempre al can. 767 – si stabilisce che «si deve tenere
l'omelia né la si può omettere se non per giusta causa ») l'omelia
del celebrante. È possibile che questa via possa essere intrapresa
in attesa che sia consentita una diversa impostazione dell'omelia, ma
non ci appare una prassi risolutiva.
Meglio
imboccare la via maestra: ma quale? Senza pretesa alcuna di dire
l'ultima parola, si formulano al riguardo alcuni suggerimenti,
soprattutto come ipotesi di lavoro o in vista di un franco dibattito
che è auspicabile si apra nella comunità cristiana. In attesa di
un'eventuale modifica del can. 767, la Chiesa italiana
potrebbe chiedere alla Santa Sede l'autorizzazione a consentire ai
singoli vescovi diocesani – in presenza di particolari situazioni
di necessità, e tenendo conto del superiore interesse dei fedeli –
di derogare al divieto di affidare l'omelia a soggetti diversi dai
presbiteri. Titolari di questa possibile "supplenza" non
dovrebbero essere, tuttavia, persone di cui non sia stata verificata
da un lato la piena appartenenza alla comunità cristiana e
dall'altro la competenza in ambito biblico e teologico. Potrebbero
pertanto essere previsti – quando non vi siano previi titoli di
studio che diano adeguate garanzie, in primis la laurea in teologia –
appositi corsi di preparazione.
In
ogni modo la facoltà di tenere l'omelia in sostituzione del
presbitero dovrebbe essere accordata soltanto a uomini e donne che
abbiano sostenuto un esame preliminare (anche con forme di
sperimentazione concreta delle loro capacità omiletiche) e siano
stati conseguentemente inseriti in un apposito Albo diocesano dei
predicatori: non indefinitamente, ma ad tempus, ad esempio
per un triennio, con possibilità tanto di conferma quanto di revoca,
con motivato giudizio dell'ordinario. Un apposito regolamento
diocesano (o eventualmente regionale, se non si riterrà di
affrontare il problema a livello nazionale) dovrebbe definire in
forma più precisa le norme per la compilazione, la tenuta e la
revisione dell'Albo.
Per
questa via ogni comunità diocesana avrebbe a disposizione un quadro
di persone di buona qualificazione che potrebbero essere invitate –
o sistematicamente o in alcuni particolari momenti – a collaborare
alle celebrazioni con le loro omelie. Né dovrebbe trattarsi di una
richiesta di ufficio, ma dell'invito personale rivolto dal presbitero
celebrante a laici o a religiosi e religiose iscritti all'albo e con
i quali si possa stabilire un rapporto di fiducia. In questa
prospettiva potrebbero e dovrebbero essere valorizzate in particolare
le religiose: molte delle quali oggi hanno un'elevata preparazione (e
spesso importanti titoli scientifici) e hanno alle loro spalle una
prolungata esperienza formativa.
Oltre
tutto, la loro qualificata presenza sarebbe presumibilmente assai
gradita da molte comunità, in quanto la Chiesa dal pulpito
parlerebbe anche al femminile, concorrendo così a modificare quella
"immagine" maschile (talora polemicamente definita come
"maschilista") che purtroppo ha ancora la Chiesa cattolica,
per i permanenti limiti della sua prassi, più che delle sue
posizioni di principio: soprattutto dopo il magistero di Giovanni
Paolo II e laMulieris dignitatem, documento che tuttavia non ha
ancora avuto, nella concreta prassi della Chiesa, un'attenzione
adeguata alla sua importanza.
Invito
alla discussione
Le
considerazioni sin qui svolte – e che per consapevole scelta di
campo sono state affidate alla benevolenza di una rivista pastorale –
non si propongono tanto di avviare un dibattito teorico sul rapporto
fra la parola di Dio e i laici (nonché le religiose) quanto di porre
un concreto problema pratico. Le motivazioni della proposta qui
formulata potranno apparire presuntuose e anche indelicate. Ma ogni
omileta dovrebbe – seguendo l'appello dell'apostolo Giacomo –
guardarsi allo specchio e se necessario fare una propria "revisione
di vita".
Chi
scrive, relatore e conferenziere ormai di "lungo corso" (e
che si appresta a terminare la lunga serie di quelle che
scherzosamente un gentile amico ha definito "omelie laiche")
periodicamente riascolta le registrazioni di alcuni suoi interventi,
per valutare se per caso non ha perduto qualche colpo... Mi
piacerebbe che tutti i presbiteri – oggi che esistono adeguati
mezzi tecnici – riascoltassero, ogni tanto, le loro omelie, senza
fidarsi troppo di quei "fedelissimi" che – come ebbe a
scrivere Mazzolari in un suo graffiante scritto su La
parrocchia – fanno cerchia attorno al parroco e «dicono
sempre di sì»... Forse, risentendo le loro parole, alcuni amici
sacerdoti – ai quali va tutta la mia riconoscenza e la mia
affettuosa simpatia – comprenderebbero che non sarebbe uno scandalo
se, almeno ogni tanto, laici e religiose preparati e qualificati
dessero voce alle componenti fin qui inascoltate dello stesso "popolo
di Dio". Alla fine, tutto ciò non sarebbe che un "ritorno"
alle origini.
Si
tratterebbe non di una penalizzazione ma di un arricchimento dei
presbiteri: verrebbe favorita una migliore comprensione della
sostanziale unità del popolo di Dio; sarebbero attenuate alcune
persistenti separatezze; si darebbe modo alla comunità di esprimersi
a più voci, senza mettere in discussione il carisma del presbitero e
il suo diritto-dovere della presidenza della celebrazione.
Soprattutto, verrebbe sottolineata l'articolata pluralità dei doni e
dei carismi nella Chiesa, nel comune assoggettamento all'unica Parola
che sta al fondamento della comunità cristiana.
Giorgio Campanini,Vita Pastorale n. 3 marzo 2011
Commenti
http://www.futurechurch.org/fpm/optcel/womendeacons/it/
Una soluzione che personalmente ritengo saggia e piu' fattibile (almeno in tempi brevi) del 'sacerdozio femminile.