1.
L'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen. 1,26): egli è
"capax Dei" e perciò sta sotto la protezione personale di
Dio, è "sacro". "Chi sparge il sangue dell'uomo,
dall'uomo il suo sangue sarà sparso, perché ad immagine di Dio Egli
ha fatto l'uomo" (Gen. 9,6).
2.
Tutti gli uomini sono un unico uomo, perché provenienti da un unico
padre Adamo e da un'unica madre, Eva, "la madre di tutti i
viventi" (Gen. 3,20). Questa unicità dell'essere umano, che
implica l'uguaglianza, gli stessi diritti fondamentali per tutti,
viene solennemente ripetuta e ri-inculcata dopo il diluvio.
Ambedue
gli aspetti, la dignità divina dell'essere umano e l'unicità della
sua origine e del suo destino, trovano un sigillo definitivo nella
figura del secondo Abramo, Cristo, il figlio di Dio è morto per
tutti, per riunire tutti nella salvezza definitiva della filiazione
divina. Questo annuncio biblico è la roccaforte della dignità umana
e dei diritti umani, è grande eredità di umanesimo autentico
affidata alla Chiesa, il cui dovere è incarnare questo annuncio in
tutte le culture, in tutti i sistemi sociali e costituzionali.
LA
DIALETTICA DELLA NOSTRA EPOCA
II.
Se diamo adesso un breve sguardo all'epoca moderna, ci troviamo
confrontati ad una dialettica che perdura fino ad oggi. Da una parte
l'epoca moderna si vanta di aver scoperto l'idea dei diritti umani,
inerenti ad ogni diritto positivo e di aver anche proclamato questi
diritti in dichiarazioni solenni. D'altra parte i diritti così
riconosciuti, in teoria non sono mai stati tanto profondamente e
radicalmente negati sul piano pratico. Le radici di questa
contraddizione devono essere ricercate nel vertice dell'epoca
moderna, nelle teorie illuministe della conoscenza, con la visione
della libertà che è loro legata, e nelle teorie del contratto
sociale, con l'idea della società che le accompagna.
Secondo
l'illuminismo, la ragione deve emanciparsi da ogni legame con la
tradizione e con l'autorità; essa è rinviata unicamente a se
stessa. Così finirà per concepirsi come un'istanza chiusa,
indipendente. La verità non sarà più un dato oggettivo, che si
mostra a tutti e a ciascuno, anche attraverso gli altri. Essa diverrà
a poco a poco una esteriorità che ciascuno coglie dal suo punto di
vista, senza mai sapere in che misura la visione che egli ha avuto
coincida con ciò che è l'oggetto in sé o con ciò che ne
percepiscono gli altri.
La
stessa verità del bene diventa inattingibile. L'idea del bene in sé
è rimandata fuori dalla presa dell'uomo. Il solo punto di
riferimento per ciascuno è ormai ciò che egli può da solo
concepire come bene. Di conseguenza la libertà non è più vista
positivamente come una tensione verso il bene, quale lo scopre la
ragione aiutata dalla comunità e dalla tradizione, ma si definisce
piuttosto come un'emancipazione da tutti i condizionamenti che
impediscono a ciascuno di seguire la sua propria ragione. Per tutto
il tempo in cui resterà vivo, almeno in forma implicita, il
riferimento ai valori cristiani per orientare la ragione individuale
verso il bene comune, la libertà limiterà se stessa in funzione di
un ordine sociale, di una libertà da assicurare a tutti.
Era
sull'idea di un diritto antecedente alle volontà individuali, e che
da esse dev'essere rispettato, che si fondavano le teorie del
contratto sociale. Ma anche qui, quando andrà perduto il riferimento
comune ai valori e finalmente a Dio, la società non apparirà più
che un insieme di individui giustapposti, e il contratto che li lega
sarà necessariamente percepito come un accordo tra coloro che hanno
il potere di imporre la loro volontà agli altri.
Così,
per una dialettica intrinseca alla modernità, dall'affermazione dei
diritti della libertà, sganciati però da ogni riferimento oggettivo
in una verità comune, si passa alla distruzione dei fondamenti
stessi di tale libertà. Il "despota illuminato" dei
teorici del contratto sociale è divenuto lo Stato tiranno, di fatto
totalitario, che dispone della vita dei più deboli, dal bambino non
ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è
più in realtà che l'interesse di alcuni.
L'ESISTENZA
ALLA DERIVA
E
proprio questa è la caratteristica saliente della grande deriva
attuale in materia di rispetto della vita; non si tratta più di una
problematica di morale semplicemente individuale, ma di una
problematica di morale sociale, a partire dal momento in cui gli
Stati e perfino delle organizzazioni internazionali, si fanno garanti
dell'aborto o dell'eutanasia, votano delle leggi che le autorizzano e
pongono i mezzi a loro disposizione al servizio di coloro che li
eseguono.
III.
Di fatto se oggi possiamo osservare una mobilitazione delle forze per
la difesa della vita umana in diversi movimenti "per la vita",
mobilitazione che è incoraggiante e fa sperare, dobbiamo tuttavia
riconoscere francamente che finora più forte è il movimento
contrario; l'estensione di legislazioni e di pratiche, che
distruggono volontariamente la vita umana, soprattutto la vita dei
più deboli: dei bambini non-nati. Siamo oggi testimoni di
un'autentica guerra dei potenti contro i deboli, una guerra che mira
all'eliminazione degli handicappati, di coloro che danno fastidio e
perfino semplicemente di coloro che sono poveri e "inutili",
in tutti i momenti della loro esistenza. con la complicità degli
Stati, mezzi colossali sono impiegati contro le persone, all'alba
della loro vita, oppure quando la loro vita è resa vulnerabile da un
incidente o da una malattia e quando essa è prossima a spegnersi.
Ci
si scaglia contro la vita nascente mediante l'aborto (risulta che nel
mondo se ne verificherebbero da 3 a 4 milioni l'anno) e proprio per
facilitare l'aborto si sono investiti miliardi nella messa a punto di
pillole abortive (RU 486). Altri miliardi sono stati stanziati per
rendere la contraccezione meno nociva per la donna, con la
contropartita che ora gran parte dei contraccettivi chimici in
commercio agiscono di fatto prevalentemente come anti-nidatori, cioè
come abortivi, senza che le donne lo sappiano. Chi potrà calcolare
il numero delle vittime di quest'ecatombe nascosta?
Gli
embrioni soprannumerari, inevitabilmente prodotti attraverso la
Fivet, sono congelati e soppressi, a meno che non raggiungano quei
loro piccoli fratelli abortiti che vengono trasformati in cavie per
la sperimentazione o in fonte di materia prima per curare le
malattie, quali il morbo di Parkinson e il diabete. La Fivet stessa
diventa spesso occasione di aborti perfino "selettivi" (es.
scelta del sesso), qualora si verifichino indesiderate gravidanze
multiple.
La
diagnosi prenatale viene usata quasi di routine sulle donne
cosiddette "a rischio", per eliminare sistematicamente
tutti i feti che potrebbero essere più o meno malformati o malati.
Tutti quelli che hanno la buona sorte di essere portati sino al
termine della gravidanza dalla loro madre, ma hanno la sventura di
nascere handicappati, rischiano fortemente di essere soppressi subito
dopo la nascita o di vedersi rifiutare l'alimentazione e le cure più
elementari.
Più
tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un
coma "irreversibile", saranno spesso messi a morte per
rispondere alle domande di trapianti d'organo o serviranno,
anch'essi, alla sperimentazione medica ("cadaveri caldi").
Infine,
quando la morte si preannuncerà, molti saranno tentati di
affrettarne la venuta mediante l'eutanasia.
IL
DIRITTO DEL PIU' FORTE
IV.
Ma perché questa vittoria di una legislazione o di una prassi
antiumana proprio nel momento in cui l'idea dei diritti umani
sembrava arrivata a un riconoscimento universale ed incondizionato?
Perché anche persone di alta formazione morale pensano che la
normativa sulla vita umana potrebbe e dovrebbe entrare nei
compromessi necessari della vita politica?
1.
Ad un primo livello della nostra riflessione, mi sembra di poter
segnalare due motivi, dietro i quali se ne nascondono probabilmente
altri. Uno si riflette nella posizione che afferma come necessaria la
separazione tra convinzioni etiche personali e ambito politico, nel
quale sono formulate le leggi: qui l'unico valore da rispettare
sarebbe la totale libertà di scelta di ciascun individuo, in
dipendenza dalle proprie opinioni private.
La
vita sociale, nell'impossibilità di fondarsi su qualsiasi
riferimento oggettivo comune, dovrebbe concepirsi come esito di un
compromesso di interessi al fine di garantire il massimo di libertà
possibile a ciascuno. Ma in realtà, laddove il criterio decisivo del
riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, laddove
il diritto all'espressione della propria libertà può prevalere sul
diritto di una minoranza che non ha voce, lì è la forza che è
divenuta il criterio del diritto.
Ciò
risulta tanto più evidente e drammaticamente grave quando in nome
della libertà di chi ha potere e voce, si nega il fondamentale
diritto alla vita di chi non ha possibilità di farsi ascoltare. In
realtà ogni comunità politica, per sussistere, deve riconoscere
almeno un minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati
tramite convenzioni sociali, ma precedenti ogni regolamentazione
politica del diritto. Si capisce allora come uno Stato, che si
arroghi la prerogativa di definire quali esseri umani siano o non
siano soggetti di diritti, che di conseguenza riconosca ad alcuni il
potere di violare il fondamentale diritto alla vita di altri,
contraddice l'ideale democratico, al quale pure continua a
richiamarsi e mina le stesse basi su cui si regge. Si vede così che
l'idea di una tolleranza assoluta della libertà di scelta di alcuni
distrugge il fondamento stesso di una convivenza giusta tra uomini.
Ci
si può chiedere però quando inizia ad esistere la persona, soggetto
di diritti fondamentali che vanno assolutamente rispettati. Se non si
tratta di una concessione sociale, ma piuttosto di un riconoscimento,
anche i criteri per questa determinazione devono essere oggettivi.
Come ha ricordato la Donum Vitae (1, 1), le recenti acquisizioni
della biologia umana riconoscono che "nello zigote derivante
dalla fecondazione si è già costituita l'identità biologica di un
nuovo individuo umano". Anche se nessun dato sperimentale può
essere per sé sufficiente a far riconoscere un'anima spirituale,
tuttavia le conclusioni della scienza sull'embrione umano forniscono
un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza
personale fin da questo primo comparire di una vita umana. In ogni
caso, fin dal primo momento della sua esistenza, al frutto della
generazione umana va garantito il rispetto incondizionato che è
moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità corporale e
spirituale.
LA
COSCIENZA E LA MORALE
2.
Un secondo motivo che spiega il diffondersi di una mentalità di
opposizione alla vita mi sembra connesso con la concezione stessa
della moralità oggi largamente diffusa. È una visione
individualistica della libertà, intesa come diritto assoluto di
autodeterminarsi sulla base delle proprie convinzioni, si associa
spesso un'idea meramente formale di coscienza. Essa non si radica più
nella concezione classica della coscienza morale (cf. Gaudium et
spes). In tale concezione, propria di tutta la tradizione cristiana,
la coscienza è la capacità di aprirsi all'appello della verità
obiettiva, universale e uguale per tutti, che tutti possono e devono
cercare.
Invece,
nella concezione innovativa, di chiara ascendenza kantiana, la
coscienza è sganciata dal suo rapporto costitutivo con un contenuto
di verità morale e ridotta una mera condizione formale della
moralità essa si rapporterebbe solo alla bontà dell'intenzione
soggettiva. In tal modo la coscienza viene ad essere nient'altro che
la soggettività elevata a criterio ultimo dell'agire. La
fondamentale idea cristiana che non c'è nessuna istanza che possa
opporsi alla coscienza non ha più il significato originario e
irrinunciabile per cui la verità non può che imporsi in virtù di
se stessa, cioè nell'interiorità personale, ma diventa una
deificazione della soggettività, di cui la coscienza è oracolo
infallibile, che non può essere messa in questione da niente e da
nessuno.
V.
Ma occorre andare più a fondo ancora nell'identificare le radici di
quest'opposizione alla vita. Così, ad un secondo livello,
riflettendo nei termini di un approccio più personalistico, troviamo
una dimensione antropologica sulla quale è necessario soffermarci se
pur brevemente.
Va
qui segnalato un nuovo dualismo che si afferma sempre più nella
cultura occidentale e verso cui convergono alcuni dei tratti
caratterizzanti la sua mentalità l'individualismo, il materialismo,
l'utilitarismo e l'ideologia edonista della realizzazione di se
stessi da parte di se stessi. Infatti, il corpo non è più percepito
spontaneamente dal soggetto come la forma concreta di tutte le sue
relazioni nei confronti di Dio, degli altri e del mondo, come quel
dato che lo inserisce all'interno di un universo in costruzione, in
una conversazione in corso, in una storia ricca di senso a cui non
può partecipare in modo positivo se non accettandone le regole e il
linguaggio. Il corpo appare piuttosto come uno strumento al servizio
di un progetto di benessere, elaborato e perseguito dalla ragione
tecnica, la quale calcola come potrà trarne il profitto migliore. La
sessualità stessa viene in tal modo de-personalizzata e
strumentalizzata. Essa appare come una semplice occasione di piacere
e non più come la realizzazione del dono di sé, né come
l'espressione di un amore che, nella misura in cui è vero, accoglie
integralmente l'altro e si apre alla ricchezza di vita di cui è
portatore, al suo bambino che sarà anche il proprio bambino. I due
significati, unitivo e procreativo, dell'atto sessuale vengono
separati. L'unione è impoverita, mentre la fecondità è rinviata
alla sfera del calcolo razionale: "il bambino, certo. Ma quando
lo voglio e come lo voglio".
Diventa
così chiaro che tale dualismo tra una ragione tecnica e un corpo
oggetto permette all'uomo di sfuggire al mistero dell'essere. In
realtà, la nascita e la morte, il sorgere di un'altra persona e la
sua scomparsa, la venuta e la dissoluzione dell'"io"
rimandano direttamente il soggetto alla questione del suo proprio
senso e della sua propria esistenza. È forse per sfuggire a questa
domanda angosciante che egli cerca di assicurarsi un dominio quanto
più completo possibile su questi due momenti chiave della vita, che
cerca di trasferirli nella zona del fare. In tal modo l'uomo si
illude di possedere se stesso, godendo di una libertà assoluta: egli
potrebbe essere fabbricato secondo un calcolo che non lascia nulla
all'incerto, nulla al caso, nulla al mistero.
2.
Un mondo che assume opzioni di efficienza tanto assolute, un mondo
che ratifica a tal punto la logica utilitarista, un mondo che per di
più concepisce la libertà come un diritto assoluto dell'individuo e
la coscienza come un'istanza soggettivistica del tutto isolata, tende
necessariamente a impoverire tutte le relazioni umane fino a
considerarle ultimamente come relazioni di forza e a non riconoscere
all'essere umano più debole il posto che gli è dovuto.
L'IDEOLOGIA
UTILITARISTA
Da
questo punto di vista l'ideologia utilitarista va nel medesimo senso
della mentalità "maschilista" ed il "femminismo"
appare come una reazione legittima alla strumentalizzazione della
donna. Tuttavia, molto spesso, il cosiddetto "femminismo"
si basa sugli stessi presupposti utilitaristici del "maschilismo"
e, lungi dal liberare la donna, coopera piuttosto al suo
asservimento.
Quando,
nella linea del dualismo già precedentemente evocato, la donna
rinnega il proprio corpo, considerandolo come un puro oggetto al
servizio di una strategia di conquista della felicità, mediante la
realizzazione di sé, essa rinnega anche la sua femminilità, il suo
modo propriamente femminile del dono di sé e dell'accoglienza
dell'altro, di cui la maternità è il segno più tipico e la
realizzazione più concreta.
Quando
la donna si schiera per l'amore libero e giunge al punto di
rivendicare il diritto di abortire, essa contribuisce a rinforzare
una concezione delle relazioni umane, secondo cui la dignità di
ognuno dipende, agli occhi dell'altro, da quanto egli può dare. In
tutto questo la donna prende posizione contro la propria femminilità
e contro i valori di cui quest'ultima è portatrice: l'accoglienza
alla vita, la disponibilità al più debole, la dedizione senza
condizioni a chi ne ha bisogno. Un autentico femminismo, lavorando
per la promozione della donna nella sua verità integrale e per la
liberazione di tutte le donne, lavorerebbe anche alla promozione
dell'uomo intero e alla liberazione di tutti gli esseri umani.
Lotterebbe infatti affinché la persona sia riconosciuta nella
dignità che gli viene solo dal fatto di esistere, di essere stata
voluta e creata da Dio, e non dalla sua utilità, dalla sua forza,
dalla sua bellezza, dalla sua intelligenza, dalla sua ricchezza e
dalla sua salute. Si sforzerebbe di promuovere un'antropologia che
valorizzi l'essenza della persona come fatta per il dono di sé e per
l'accoglienza dell'altro, di cui il corpo, maschile o femminile, è
il segno e lo strumento. È proprio sviluppando un'antropologia che
presenta l'uomo nella sua integralità personale e relazionale che si
può rispondere all'argomentazione diffusa, secondo cui il mezzo
migliore per lottare contro l'aborto sarebbe quello di promuovere la
contraccezione. Una simile tesi che di primo acchito sembra del tutto
plausibile, è però contraddetta dall'esperienza: si constata
generalmente una crescita parallela dei tassi di ricorso alla
contraccezione e dei tassi di aborto. Il paradosso non è apparente.
Infatti bisogna rendersi conto che la contraccezione e l'aborto
affondano entrambi le loro radici in quella visione de-personalizzata
e utilitaristica della sessualità e della procreazione, che abbiamo
appena descritta e che si basa a sua volta su una concezione mutilata
dell'uomo e della sua libertà.
Non
si tratta, infatti, di assumere una gestione responsabile e degna
della propria fecondità in funzione di un progetto generoso, sempre
aperto all'accoglienza eventuale di una nuova vita imprevista.
Si
tratta piuttosto di assicurarsi un dominio completo della
procreazione, che respinge persino l'idea di un figlio non
programmato. Compresa in questi termini, la contraccezione conduce
necessariamente all'aborto come "soluzione di riserva". In
realtà solo se si sviluppa l'idea che l'uomo non ritrova pienamente
se stesso che nel dono generoso di sé e nell'accoglienza
incondizionata dell'altro, semplicemente perché questi esiste,
l'aborto apparirà come un crimine assurdo.
Un'antropologia
di tipo individualistico conduce, come abbiamo visto, a considerare
la verità oggettiva come inaccessibile, la libertà come arbitraria,
la coscienza come una istanza chiusa in se stessa. Essa orienta la
donna non solamente all'odio verso gli uomini, ma anche all'odio
verso di sé e verso la propria femminilità, soprattutto verso la
propria maternità.
Una
simile antropologia orienta più generalmente l'essere umano all'odio
verso di sé. L'uomo disprezza se stesso; non è più d'accordo con
Dio che aveva trovato "cosa molto buona" la creatura umana
(Gen. 1,31). Al contrario, l'uomo di oggi vede in se stesso il grande
distruttore del mondo, un prodotto infelice dell'evoluzione. E in
realtà, l'uomo che non ha più accesso all'infinito, a Dio, è un
essere contraddittorio, un prodotto fallito. Qui appare la logica del
peccato: l'uomo volendo essere come Dio, cerca l'indipendenza
assoluta. Per essere autosufficiente deve diventare indipendente,
deve emenciparsi anche dall'amore, che è sempre grazia libera, non
producibile e fattibile. Però facendosi indipendente dall'amore
l'uomo si è separato dalla vera ricchezza e del suo essere, è
divenuto vuoto e l'opposizione contro il proprio essere diventa
inevitabile. "Non è bene essere un uomo", la logica della
morte appartiene alla logica del peccato. La strada verso l'aborto,
verso l'eutanasia e lo sfruttamento dei più deboli è aperta.
In
sintesi possiamo quindi dire: la radice ultima dell'odio contro la
vita umana, di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita
di Dio. Dove Dio compare, compare anche la dignità assoluta della
vita umana.
Joseph Ratzinger,1991
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