Di Elizabeth
Green
Sappiamo
infatti che finora tutta la creazione
geme
ed è in travaglio; non solo essa,
ma
anche noi, che abbiamo le primizie dello
Spirito,
gemiamo dentro di noi, aspettando
l’adozione,
la redenzione del nostro corpo.
Poiché
siamo salvati in speranza (Rm 8,23).
Così
recita uno stralcio della lettera di Paolo ai Romani che ha ispirato
il titolo di questa ricerca. È uno dei pochi testi in cui
l’apostolo Paolo utilizza una metafora femminile. La
creazione, sofferente è in attesa. Attende la manifestazione dei
figli e delle figlie di Dio. Solo insieme a loro la creazione
entrerà nella gloriosa libertà scevra di tutto ciò che la
deturpa, inquinamento, depredazione. Essa è dunque,
in travaglio, una sofferenza che non produrrà una morte bensì
una nascita. L’immagine è quella del parto, di un creato che
darà alla luce, certamente coadiuvato dallo Spirito divino, una
realtà nuova. Il nostro, dunque, è tempo dell’attesa e
della tessitura.
Lo scopo di questo scritto è di fornire dei fili coi quali tessere una ecologia spirituale. Ho scelto questo brano perché delimita i termini del mio contributo. Innanzitutto esso pone subito davanti a noi almeno in modo metaforico la relazione tra donne e creato; anzi sembra che la creazione sia quasi una partoriente che grida animata dallo Spirito. Ci introdurrà, quindi, nella relazione tra donne e natura punto di partenza del cosiddetto eco femminismo. Poi esso addita l’interrelazione tra i diversi membri della comunità del creato non solo essa ma anche noi scrive Paolo, né il mondo senza l’essere umano né l’essere umano scevro dalla creazione. Infine, colloca il mio studio all’interno della tradizione cristiana, quindi seppur non senza interesse,tralascio le intuizioni provenienti della vasta area della spiritualità femminile incentrata sulla dea. Il nostro tempo è tempo di attesa; non solo la creazione aspetta con pazienza ma anche noi, gemiamo dentro di noi, aspettando la redenzione del nostro corpo. È tempo per tessere insieme donne, natura e cristianesimo ovvero creare una teologia ecofemminista. La teologia ecofemminista è, a prima vista, quindi, un incontro tra teologia femminista e ecoteologia ambedue delle quali nacquero più o meno contemporaneamente negli anni sessanta-settanta del secolo scorso. A dire la verità, la situazione è più complessa perché la teologia femminista tesse diverse teologie con diversi ecofemminismi, diverse teorie femministe con diverse correnti dell’ambientalismo. L’importante è sapere a) che l’ecofemminismo parte da un rapporto privilegiato tra donne e natura e b) che la teologia è un atto secondo ovvero un discorso ragionato su Dio che, nel nostro caso, nutre ed è nutrita da una spiritualità e una prassi ecologica e femminista.
Lo scopo di questo scritto è di fornire dei fili coi quali tessere una ecologia spirituale. Ho scelto questo brano perché delimita i termini del mio contributo. Innanzitutto esso pone subito davanti a noi almeno in modo metaforico la relazione tra donne e creato; anzi sembra che la creazione sia quasi una partoriente che grida animata dallo Spirito. Ci introdurrà, quindi, nella relazione tra donne e natura punto di partenza del cosiddetto eco femminismo. Poi esso addita l’interrelazione tra i diversi membri della comunità del creato non solo essa ma anche noi scrive Paolo, né il mondo senza l’essere umano né l’essere umano scevro dalla creazione. Infine, colloca il mio studio all’interno della tradizione cristiana, quindi seppur non senza interesse,tralascio le intuizioni provenienti della vasta area della spiritualità femminile incentrata sulla dea. Il nostro tempo è tempo di attesa; non solo la creazione aspetta con pazienza ma anche noi, gemiamo dentro di noi, aspettando la redenzione del nostro corpo. È tempo per tessere insieme donne, natura e cristianesimo ovvero creare una teologia ecofemminista. La teologia ecofemminista è, a prima vista, quindi, un incontro tra teologia femminista e ecoteologia ambedue delle quali nacquero più o meno contemporaneamente negli anni sessanta-settanta del secolo scorso. A dire la verità, la situazione è più complessa perché la teologia femminista tesse diverse teologie con diversi ecofemminismi, diverse teorie femministe con diverse correnti dell’ambientalismo. L’importante è sapere a) che l’ecofemminismo parte da un rapporto privilegiato tra donne e natura e b) che la teologia è un atto secondo ovvero un discorso ragionato su Dio che, nel nostro caso, nutre ed è nutrita da una spiritualità e una prassi ecologica e femminista.
Prima
di indagare più a fondo il rapporto donna e natura mi preme dire che
il tema del creato, della sua sofferenza e della sua guarigione
fu all’ordine del giorno della teologia femminista prima che
si coniasse il termine “eco-femminismo”. Uno dei primi libri
di Rosemary Radford Ruether, teologa cattolica
statunitense, pubblicato nel 1972 s’intitolava Per una
teologia della liberazione della donna, del corpo e della
natura. In esso ella sviluppa una tesi che rimane inalterata nel
suo testo posteriore Gaia e Dio. Una teologia ecofemminista per
la guarigione della terra e di fatto informa i maggiori scritti
sull’argomento. La tesi di Ruether che sarà adottata e
sviluppata da tutta una schiera di pensatrici è che il patriarcato,
o il dominio maschile al centro dell’analisi femminista non
opprime solo le donne ma anche persone, uomini e donne, di altri
popoli, di altre razze, di altri orientamenti sessuali nonché
la natura stessa.
Seguendo
il nesso tra la donna come “altro” o “oggetto” indagato
magistralmente da Simone de Beauvoir viene stabilita non solo una
connessione tra le donne e altre cosiddette non-persone ma anche tra
le diverse forme di oppressione e sfruttamento come l’imperialismo,
il colonialismo, il razzismo, il militarismo nonché lo sfruttamento
della natura. Questa prima analisi femminista ha il pregio di
collocare la discriminazione delle donne all’interno di un sistema
che produce una serie di relazioni ingiuste e quindi riesce a
stabilire connessioni, per esempio, tra una civiltà guerrafondaia,
la distruzione dell’ambiente e la posizione subalterna delle
donne. Così scrive Adriana Cavarero: “Talmente palese, esteso
e pervasivo è il fenomeno dell’ordine gerarchico patriarcale, che
l’indagine su di esso consente alla prospettiva femminista di
spaziare a tutto campo” (p. 115).
L’ecofemminismo,
quindi, parte da una presunta relazione tra le donne e il mondo
naturale ovvero si dice che “le donne sono più vicine alla natura”
degli uomini.
Alcune
autrici sostengono che le donne sono biologicamente più
vicine alla natura che il sesso maschile. Il fatto che le donne
partoriscono, che il ciclo mestruale è connesso ai cicli
lunari, i quali a loro volta regolano maree e raccolte, farebbe
sì che le donne siano inserite nei grandi ritmi cosmici e dunque
portatrici di una saggezza di cui il creato in attesa di
redenzione abbisogna. Tuttavia bisogna ricordare che questa
presunta affinità tra donne e natura è stata declinata
all’interno di un ordine sociale che mantiene le donne in una
posizione subalterna contemporaneamente esaltando e disprezzando la
femminilità.
Per
altre, invece, le donne sì hanno una speciale capacità di relazione
in grado di creare connessione con la natura ma non a causa della
biologia bensì di una emarginazione plurisecolare. Così Mary Grey
scrive: “le donne stanno rivelando un mondo imperniato sulla
relazione. Ne sono capaci non a causa di qualche mitodella
femminilità o della sua costruzione fisiologica ma perché essendo
stata in gran parte esclusa dall’etica competitiva, aggressiva,
dominante che controlla la sfera pubblica le capacità relazionali
vitali per l’umanità intera sono state conservate e
sviluppate” (p. 31). Paradossalmente, l’identificazione
maschilista delle donne con la natura ha creato una cultura che in
questi tempi di attesa e di tessitura possa rivelarsi una benedizione
per il pianeta. Si tratta, quindi, di costruire sulle esperienze
delle donne ma, e questo è il punto, senza veicolare una stereotipia
femminile tipica del patriarcato. È una trappola in cui è facile
cadere come segnala Adriana Cavarero: “Il gesto femminista di
cambiare il segno della dicotomia, esaltando il valore positivo delle
equazioni donna/natura contro il valore negativo delle equazioni
uomo/tecnologia, più che dissolvere l’ordine patriarcale, dunque,
lo legittima” (p. 121).
Prima
di approfondire il nostro argomento bisogna tenere presente un’
altra eventuale obbiezione. La teoria femminista iniziò
mettendo in questione la neutralità del presunto soggetto universale
“l’uomo” asserendo, giustamente, che escludeva la differenza di
genere. Ben presto, però, le donne dei due terzi del mondo misero in
questione l’universalità della categoria “donna” adottata
dalle teoriche euro atlantiche in quanto escludeva le differenze tra
donne. Ne consegue che un ecofemminismo costruito su una
presunta affinità tra donne e natura può non rappresentare
l’esperienza di tutte le donne e può essere persino vettore di
idee razziste. La teologa afroamericana Dolores Williams (pp.
113-115), per esempio, mette in evidenza come schiave nere e padrone
bianche avevano una diversa percezione della natura a causa della
diversa posizione che occupavano nell’ordine sociale schiavista.
Tuttavia, la scienziata Vandana Shiva, pur riconoscendo il maschile e
il femminile come “categorie definite ideologicamente” costruisce
nel contesto indiano un pensiero ecologico basato proprio sul
recupero e valorizzazione del principio femminile. “Il recupero del
principio femminile è quindi legato alla categoria, non patriarcale
e non fondata sul sesso, della violenza non creativa, o ‘potere
creativo in forma pacifica’ come recitava Tagore nella sua
preghiera all’albero “l’affinità tra donne e natura” (p.
66), mentre in America latina la figura di Madre Terra Pachamama
informa la spiritualità delle donne andine offrendo loro una visione
del divino in armonia con la terra all’interno del cristianesimo.
Riprendiamo
il nostro punto di partenza ovvero il nesso tra donne e natura alla
base dell’ecofemminismo. Tale nesso può essere declinato in
almeno tre modi. Li delineo brevemente indicando il modo in cui
ognuno ha contribuito alla teologia eco femminista. Attraverso la
storia. Alcuni studiosi come Carolyne Merchant e David Noble hanno
esplorato il nesso tra lo sfruttamento della terra, da una parte, e
l’oppressione delle donne, dall’altra, attraverso la storia delle
idee. Ruether, in modo particolare, ricostruisce la storia del
duplice dominio della donna e della natura in tre fasi ognuna delle
quali con il suo modello mitico. La prima fase consiste in
un periodo di presunta armonia tra l’umanità e la terra
presieduta da una divinità femminile la quale però cederà il
passo ad una civiltà urbana governata dal Dio del
cielo (maschile). La seconda fase esemplificata dal periodo
patristico, rappresenterebbe una fuga dalla natura e, come
vedremo, dal corpo e dalla donna. L’insorgere della scienza moderna
costruirebbe, dunque, sulla misoginia medioevale. Nella terza fase si
cerca di “sterilizzare completamente il potere
della natura” (1995, p. 287). Negli scritti di Bacone la
natura viene costretta come una donna sottoposta a tortura a rivelare
i suoi segreti. Un paragone inquietante se pensiamo che
all’insorgere della nuova scienza molte donne furono torturate e
uccise accusate di stregoneria, ovvero a causa della loro scienza.
Nella
patriarcalizzazione della chiesa avvenuta nei primi secoli del
cristianesimo, la demonizzazione della donna (Eva) viene
compensata dalla sua esaltazione mediante Maria, modello, però,
impossibile da emulare. Persino questa concessione al femminile
viene spazzata via, sempre secondo la lettura da Ruether, dal
protestantesimo il quale porta a termine la desacralizzazione
della natura ponendo le basi per il suo ulteriore sfruttamento
mediante lo sviluppo tecnoscientifico. L’ordine sociale capitalista
spostando i mezzi di produzione dalla famiglia alla fabbrica
riproduce poi la stessa scissione nel femminile. Mentre la visione
romantica dell’eterno femminile serve a relegare le donne delle
classi borghesi alla sfera domestica, le operaie sono disprezzate e
consegnate al doppio lavoro nelle fabbriche o nelle case dei ricchi.
Conclude Ruether: “Le radici del male stanno nei modelli di
dominio attraverso i quali le élite maschili al potere negano la
loro interdipendenza con le donne, sfruttando il lavoro umano e
lacomunità biotica intorno a loro” (p. 287).
Attraverso
l’epistemologia. Come abbiamo visto, la terza fase individuata da
Ruether (che coincide con la nascita della scienza moderna) è
considerata cruciale per aver intensificato il disequilibrio tra
uomini e natura: “Vi è, scrive Ruether, il tentativo
di sterilizzare completamente il potere della natura,
immaginandola come una sostanza morta totalmente
malleabile nelle mani degli uomini al potere” (p. 287). Non
c’è da sorprendersi, quindi se la stessa epistemologia scientifica
è stata messa sotto accusa, e la distinzione operata da Descartes
tra res cogitans e res extensa denominata una “maschilizzazione
della scienza”. La critica femminista all’epistemologia
scientifica nata dal noto lavoro di Evelyn Fox Keller costituisce un
altro punto di partenza per una teologia eco femminista. Essa parte
mettendo in questione la distinzione tra soggetto e oggetto alla
radice del sapere occidentale. Non solo la natura è diventata
l’oggetto per eccellenza ma, secondo Sallie McFague (teologa
protestante che si occupa di ecofemminismo da anni), lo stesso
modello è implicitamente “dualistico, gerarchico,
individualistico e utilitaristico”. McFague propone che la
relazione tra soggetto (ragione) e natura (oggetto) sia considerata,
invece, una relazione tra soggetti. Secondo questo modello lo
strumento di conoscenza non è più lo sguardo il quale “crea
distanza, oggettivizza e controlla” (p. 69), bensì il tatto.
Questo significa la capacità di lasciarsi “toccare”
dalla natura entrando in una relazione con lei di tipo
empatico. In altre parole, McFague e altre (Grey, Deane
Drummond) utilizzano un modello intersoggettivo per dire la
nostra relazione con la natura.
Poiché
socialmente e simbolicamente la donna è stata considerata l’oggetto
per eccellenza, vediamo come una tale proposta viene incontro
alle preoccupazioni dell’ecofemminismo, e come la gloriosa libertà
dei figli e figlie di Dio andrebbe a pari passo con il creato.
Che c’entra il cristianesimo in questa proposta? In primo luogo,
sostiene McFague, Cristo liberandoci dalle nostre ansie ci
permette di entrare in relazione con la natura senza dominio, da
una parte, né fusione,dall’altra. In secondo luogo, non è
tanto la natura a portarci a Dio bensì Dio a portarci alla
natura. Per McFague la natura stessa esiste in Dio, Dio stesso
ci permette di vedere la natura in tutta la sua particolarità:
questo albero, questo mare, questo animale. Vedendo la
particolarità di ogni singolo membro del creato (che Dio
semplicemente “lascia essere”) abbiamo nuove intuizioni
della molteplicità in Dio stesso. In terzo luogo, il
cristianesimo non solo adotta un’etica di cura verso la terra
ma privilegia i soggetti più bisognosi ovvero opera un’opzione
preferenziale per i poveri. Questo ci porta al nostro terzo modo di
unire donne e natura.
Attraverso
le condizione socioeconomiche. Questa prospettiva parte dal fatto che
i molteplici problemi ambientali fonte, come sappiamo,
dell’impoverimento diinteri popoli colpiscono le donne in modo
particolare in quanto sono le più povere tra i poveri. Se sono
le donne ad occuparsi di fornire acqua alle loro famiglie,
come accade, per esempio in Africa, la scarsità di acqua a
causa della desertificazione ripercuoterà sulla vita quotidiana
delle donne in modo diverso. La condizione di vita di molte
donne dei due terzi del mondo le quali “vivono alla congiuntura tra
le persone più povere e la natura più devastata”,
costituisce secondo McFague un tipo di termometrosullo stato sia
della natura della comunità umana (1997, p. 171). E alla loro
condizione e esperienza che dovremmo prestare attenzione
Questi
tre filoni si informano a vicenda. Possiamo dire che l’analisi
della condizione della donna ha fornito un punto di entrata ad
un sistema globale di dominio che abbraccia anche la crisi
ambientale perché, a livello simbolico, la differenza di
genere, ovvero il maschile e il femminile, viene utilizzata per dire
una serie di altre differenze alla base dei rapporti ingiusti di
cui il nostro mondo è costellato. La filosofa Adriana
Cavarero lo spiega così: “In sintesi la tradizione occidentale
assume la differenza sessuale come un’opposizione di maschile
e femminile in cui i due termini non sono posti sullo stesso
piano, uno di fronte all’altro, bensì sono strutturati
secondo un ordine gerarchico di subordinazione esclusione” (p.
115).
Se
trasponiamo questa analisi all’ordine simbolico cristiano vediamo
che anche esso è organizzato in modo gerarchico e
patriarcale. Infatti scopriamo una serie di opposizioni
spirito-materia, storia-natura, anima-corpo, soggetto-oggetto che
per secoli hanno condizionato il pensiero cristiano. Mentre il
primo termine della polarità è declinata al maschile, il
termine subordinato è declinato al femminile. Così spiega
Cavarero, “L’ordine simbolico patriarcale si fonda su una logica
assai singolare che, a dispetto del fatto che gli esseri umani
sono dell’uno o dell’altro sesso, assume il solo sesso
maschile come paradigma dell’intero genero umano” (p.116).
L’antropocentrismo denunciato da un certo pensiero ecologico
diventa di fatto androcentrismo. Ciò che è d’importanza
fondamentale per il nostro discorso è che Dio viene
identificato col polo maschile di queste dualità. Così dal lato
positivo e superiore abbiamo Dio, spirito, ragione, storia,
uomo e dal lato negativo e inferiore mondo, natura,
corpo, caducità, donna. Nell’ordine simbolico cristiano tali
polarità si reggono sulla distinzione e distanza tra Dio e il mondo.
Così la teologa e attivista luterana Dorothee Soelle afferma
che la distanza tra Creatore e creatura è stato tradotta nei
termini della dicotomia sessuale in modo che al maschio vengono
attribuite caratteristiche “divine” e alla femmina
caratteristiche “del mondo”. Ovvero “il concetto
ontologico è utilizzato in modo sessista” (p. 24). Questo
significa che tutto ciò che appartiene alla sfera del divino è
declinato al maschile e tutto ciò che appartiene alla sfera del
creato, la terra, la natura, il popolo di Dio, la chiesa viene
declinata al femminile. Non è difficile vedere come in
un ordine simbolico del genere il dominio della terra ordinato
da Dio nel primo capitolo della Genesi è diventato (al terzo
capitolo) il dominio della donna da parte dell’uomo. “Posto
il sesso maschile come rappresentativo dell’umano in quanto umano,
il sesso femminile risulta non pienamente umano, ossia umano ma di
grado inferiore, incompiuto” (Cavarero p. 116 e McFague 1997,
p. 89).
Ci
troviamo, quindi di fronte a due problemi che sono connessi l’uno
all’altro, da un lato, la relazione tra Dio e il mondo
intesa in termini di dominio e controllo che ha contribuito
all’uso meramente strumentale della natura, e dall’altro,
la sessuazione di quella relazione che ha legittimato
l’esclusione e la discriminazione delle donne e una parte
degli uomini da parte dei “maschi dominanti”. Nel suo primo
libro sull’argomento, McFague (1998) infatti prende di mira la
visione monarchica di Dio la quale ha “tre carenze
principali:…è lontano dal mondo, ha rapporti solo col mondo umano
e governa su quel mondo attraverso il dominio e la benevolenza”
(p. 97).
Non
è solo la teologia femminista a sostenere questa tesi; anche
Juergen Moltmann è estremamente critico delle diverse forme di
dualismo teologico: “All’ordine intra-trinitaria che comanda
e del Figlio che obbedisce, corrisponde l’ordine
extra-trinitario della signoria di Dio sul mondo...La stessa
associazione tra i membri della linea ‘superiore’
cielo/anima/uomo suscita commenti ironici. Senza parlare della
linea ‘inferiore’: terra/corpo/donna! Un mondo ‘ordinato’
secondo questi schemi scissi non sarà certo un mondo in cui
regna la pace” (p. 295) mentre il teologo brasiliano Leonardo
Boff, incorporando nel suo pensiero l’analisi ecofemminista,
mette il dito sulla “volontà di potere e di dominio” perno
della cultura patriarcale: “Si tratta di un progetto
ambizioso e prometeico di conquistare il mondo intero,
assoggettare popoli, sottomettere la natura” (p. 359). Siamo
in grado, quindi, di vedere che la teologia ecofemminista raccoglie
la sfida di decostruire il modo in cui il cristianesimo si è
inscritto nell’economia binaria. Questo significa, da un lato,
liberare l’ordine simbolico cristiano dalle dualità sessiste
e ripensare in termini nuovi la relazione tra Dio e il mondo.
In questo modo la teologia ecofemminista unisce la
liberazione del creato alla manifestazione della gloriosa
libertà delle figlie di Dio. Abbiamo visto che uno dei punti
d’entrata al nostro tema è attraverso l’economia. In Gaia e
Dio Ruether ritiene che una cultura e società ecologica richiede
tre elementi: 1) la costruzione di comunità locali in cui le persone
vivono all’interno di un certo ecosistema; 2) l’equa
condivisione tra tutti i membri della comunità dei mezzi di
sussistenza e 3) la solidarietà e la compassione invece
della concorrenza e del dominio. Ruether, rivisitando il
cristianesimo scopre due tradizioni utili per il suo proposito.
La prima, la tradizione del patto riscontrabile lungo tutta la
storia cristiana un’alleanza tra gli esseri umani e le
altre forme di vita. Utilizzando il linguaggio del diritto esso
vieta, infatti, “che l’alterità sia tradotta in ostilità
distruttiva” (p. 322). Tale filone si fonda sulla riscoperta di
alcuni elementi biblici tra i quali: 1) Dio che si rapporta
direttamente con la natura “Dio è visto come colui che prende
profondo diletto nell’opera della creazione e la creazione, a
sua volta, risponde a Dio con la lode” (p. 296). Non solo, ma:
2) la comunità umana e il mondo naturale sono uniti, nella
buona e nella cattiva sorte, all’ingiustizia a livello sociale
corrisponde la devastazione della natura, al ripristino della
giustizia sociale fiorisce il mondo naturale; 3) inoltre, la
complessa legislazione sabbatica si estende agli esseri umani,
agli animali e alla terra; 4) infine, Dio stesso stabilisce un
patto non solo con l’essere umano ma con tutta la comunità
del creato. Possiamo dire, infatti, che secondo le scritture la
relazione tra Creatore e creato esula dalle polarità in cui
essa è stata costretta. La stessa cosa possiamo dire della
seconda tradizione individuata da Ruether, quella sacramentale
ispirata al Cristo cosmico. Secondo questa visione, l’opera
di Cristo non è circoscritta all’intimo del cuore umano né
agli eventi della storia ma difatti estende a tutta la creazione
di cui Cristo è l’inizio è la fine. Poiché Cristo è “la
manifestazione di Dio”, il cosmo stesso può manifestare Cristo.
Anzi, una rilettura della visione sacramentale (aiutata da
filosofi come Teilhard de Chardin o dalla filosofia del
processo) ci aiuta a superare la scissione tra Dio e natura. Come a
livello subatomico la distinzione classica tra materia ed energia
scompare così, “ciò che tradizionalmente abbiamo chiamato
“Dio” o la “mente” o lo schema razionale che tiene
insieme tutte le cose, e ciò che abbiamo chiamato "materia’…vengono
a riunirsi” (p. 352). Nella visione di Ruether, quindi,
Dio diventa “la costante Matrice creatrice di tutto” (p.
357).
Un
altro uso molto suggestivo di tale tradizione è fatto da McFague la
quale per contrastare il modello monarchico di Dio suggerisce la
metafora del “mondo come corpo di Dio”. Ella si propone
di interpretare la risurrezione del corpo come la “promessa di
Dio che egli sarà sempre con noi nel corpo di Dio, il nostro
mondo” (1998, p. 103). Tale idea vuole ampliare la nozione
dell’incarnazione secondo la quale Dio prende corpo rendendosi
vulnerabile. Secondo questo modello la relazione tra Dio e il
mondo cambia radicalmente in quanto Dio ha una conoscenza immediata
del mondo, suo corpo. Così Dio ama i corpi e la corporeità, e
la sua azione è interna al mondo, attraverso l’evoluzione,
per esempio. Per di più la natura non è considerato come
un modo per conoscere Dio ma Dio stesso diventa l’ambiente
(si può dire) in cui la natura può essere conosciuta, amata,
protetta. Consapevole delle eventuali derive panteiste della sua
metafora McFague, insieme ad altri teologi che fanno ecoteologia
sposa il panenteismo: “una visione del rapporto Dio-mondo in
cui tutte le cose hanno la loro origine in Dio e nulla esiste al
di fuori di Dio, sebbene questo non significhi che Dio sia limitato a
tali cose” (p.105).
È
interessante constatare come man mano che queste teologhe entrano nel
tema
dell’ecologia
sembra venire meno la questione di genere. Ruether, per
esempio, respinge un semplice ribaltamento della dicotomia
sessuata, mediante la figura della Dea. La sua preoccupazione
non è tanto a livello simbolico quanto a livello sociale.
Occorre “una duplice trasformazione delle donne e degli uomini nel
loro rapporto reciproco e con la ‘natura’” (p. 374). Donne
e uomini, a causa della diversa posizione che occupano
nell’ordine sociale avranno diversi percorsi di trasformazione
da fare. Le donne, pur dovendo acquisire un maggiore senso di sé
non devono conformarsi alla volontà di dominio ma “rimanere in un
rapporto vitale con le comunità di vita primarie” (p.
374). Sono gli uomini a dovere operare mutamenti più profondi,
a partire della cogestione dei lavori di cura appannaggio del
mondo femminile. Solo quando gli uomini a) avranno abbandonato
l’illusione di un individualismo autonomo che esercita poter
sugli e le altri e b) si occuperanno della conservazione
quotidiana della vita “uomini e donne potranno cominciare a
riplasmare insieme i grandi sistemi della vita economica, sociale e
politica”
(p. 375).
Fin
qui abbiamo visto molto brevemente alcune piste seguite dalle
teologhe per ripensare la relazione tra Dio e il mondo in modo
da superare una relazione di dominio gerarchico. Che cosa
possiamo dire del tentativo di decostruire la genderizzazione
dei diversi dualismi, il fatto che i due poli sono stati
identificati col maschile e femminile? Poiché, tale
genderizzazione è imperniata su la presunta maschilità divina,
la teologia femminista ha cercato, senza semplicemente ribaltare una
dicotomia sessista, di dire Dio al femminile. A questo punto il
discorso diventerebbe molto lungo; mi limito ad indicare un
filone di pensiero che potrebbe rivelarsi molto fecondo per una
teologia ecofemminista che si ispira alla tradizione cristiana.
La
ricerca di cui ora porterò alcuni stralci parte dalla figura biblica
della divina
Sapienza.
La tradizione sapienziale presente sia nel primo che nel
secondo testamento ha destato moltissimo interesse tra le
studiose in quanto (tralasciando tutto il dibattito a proposito)
essa testimonia di una figura femminile, Hochmah o Sophia,
espressione dell’unico Dio e soprattutto della sua relazione col
mondo. In altre parole, tale tradizione è ricca di materiale
che ci permette di dire Dio al femminile. E’ esattamente ciò
che ha fatto la teologa cattolica Elisabeth Johnson la quale ha
elaborato una teologia del Dio trinitario tutto al femminile Colei
che è. Le teologhe che lavorano in questo campo non devono
inventarsi ex novo delle immagini al femminile o rivisitare i
vari miti della dea ma riscoprire immagini già codificate nella
tradizione ebraica e cristiana. Molti degli attributi di Sophia,
per esempio, insieme ad altre immagini femminili della Shekinah
o dello Spirito (ruach) sono andate ad arricchire la
pneumatologia prima e la figura di Maria poi.
In
questo modo, però sono stati declassati, identificati con il polo
umano della dicotomia. Ora si tratta di rielaborarli
collocandoli nella loro giusta posizione. Così Colei che è, si
presenta come Sophia-Spirito, Sophia-Gesù e SophiaMadre. La figura
di Sophia è importante non solo perché ci fornisce un modo di dire
Dio al femminile (modo che tra l’altro non si fonda su immagini
materne) ma anche perché ci aiuta ad immaginare la complessa
relazione di Dio col mondo. Sarebbe impossibile fare giustizia
all’immagine di Dio che emerge dal pensiero di Johnson. Lei
stessa, per esempio, sostiene che la nozione di Sophia-Spirito ci
aiuta a ripensare il modello monarchico di Dio. “Nel medesimo
tempo in cui essa è intrinsecamente in relazione, lo Spirito è
essenzialmente libero”. Libertà e relazionalità due
termini chiave del pensiero delle donne s’implicano e si promuovono
a vicenda “Pur rimanendo in se stessa tutto rinnova” (Sap.
7, 27).
Non
sorprende se anche Johnson dirà la relazione tra Dio e il mondo in
termini del panenteismo: Dio nel mondo e il mondo in
Dio. Sebbene la relazione è reciproca le differenze
rimangono e sono rispettate. In questo modo Johnson si propone,
da una parte, “di salvaguardare la relazione come principio di
auto distinzione, contrast(ando) la tendenza verso
l’assorbimento che segna lo stereotipo femminile del panteismo”,
e dall’altra, superare “l’isolamento del Dio patriarcale del
teismo classico” (p. 449). La tradizione sapienziale sfocia,
quindi in un’etica ecologica: “l’attenzione redentrice di Gesù
il Cristo ha come intento il fiorire di tutte le creature e della
terra intera stessa. Il potere dello Spirito di Cristo
appare dovunque gli esseri umani condividono questo amore per la
terra, ricercando la sua fecondità, rispettandone i limiti e
custodendola contro la devastazione” (p. 331).
Queste
parole mi sembrano adatte per portare a termine questa breve
introduzione
alla teologia ecofemminista. Nel tempo dell’attesa tra gemiti
e speranza, non ci stiamo con le mani in mano ma tessiamo,
tessiamo una teologia che unisce la liberazione e trasformazione
del creato con la manifestazione della gloriosa libertà delle
figlie di Dio. L’ecofemminismo, partendo dalla
relazione privilegiata tra donne e natura smaschera un sistema
potente di dominio che abbraccia molte donne, alcuni uomini e il
pianeta intero. Esso mostra come le diverse istanze di
sfruttamento, economico, sociale e ecologico sono
connesse. Costruendo su una capacità di relazione proprio di
una cultura femminile esso tesse una visione di Dio che insieme
a noi si adopera per la liberazione della comunità del creato,
Dio che è invocata da M. Riensiru in questa preghiera:
Dio
è seduta e piange, la meravigliosa tappezzeria della creazione
Che
aveva tessuto con tanta gioia è mutilata, è strappata a brandelli,
ridotta
in cenci; la sua bellezza e saccheggiata dalla violenza
Dio
è seduta e piange.
Ma
guardate, raccoglie i brandelli, per ricominciare a tessere.
Raccoglie
i brandelli delle nostre tristezze, le pene, le lacrime, le
frustrazioni
Causate
dalla crudeltà, dalla violenza,
dall’ignoranza,
dagli stupri, dagli assassinii.
Raccoglie
i brandelli di un duro lavoro,
degli
sforzi coraggiosi, delle iniziative di pace,
delle
proteste contro le ingiustizia.
Tutte
queste realtà che sembrano piccole e deboli.
Le
parole, le azioni offerte in sacrifico,
nella
speranza, la fede, l’amore.
Guardate!
Tutto ritesse con il filo d’oro della gioia.
Dà
vita ad un nuovo arazzo, una creazione ancora più ricca,
ancora
più bella di quanto fosse l’antica!
Dio
è seduta, tesse con pazienza, con perseveranza
E
con il sorriso che sprigiona come un arcobaleno
Sul
volto bagnato di lacrime.
E
ci invita a non offrirle soltanto i cenci ed i brandelli delle nostre
Sofferenze
e del nostro lavoro.
Ci
domanda molto di più.
Di
restarle accanto davanti al telaio della gioia,
ed
a tessere con lei l’arazzo della nuova creazione.
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Note
Elizabeth
Green, teologa e pastora protestante, attualmente cura la chiesa
battista di Grosseto. È stata vice-presidente dell’
“Associazione Europea delle Donne per la Ricerca Teologica” per
la quale insieme a Mary Grey ha curato il volume Ecofeminism and
Theology (1994), si occupa di teologia di genere e ha numerose
pubblicazioni a suo carico di cui l'ultimo Il filo tradito. Vent'anni
di teologiafemminista (2011).
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