La
nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima
parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché
essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore
inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro
indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la
quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha
preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi,
per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la
bellezza che non è piú amata e custodita nemmeno dalla religione,
ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei
tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa
è la bellezza alla quale non osiamo piú credere e di cui
abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero.
Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo
meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della
bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste
sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta
misteriosa.
In
un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a
meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra,
equivocandone il senso –, in un mondo che non ne è forse privo, ma
che non è piú in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche
il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo
dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso
e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche
questo costituisce infatti una possibilità, persino molto piú
eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici? In un
mondo che non si crede piú capace di affermare il bello, gli
argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di
conclusione logica: i sillogismi cioè ruotano secondo il ritmo
prefissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori
elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al
minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo
che non inchioda piú nessuno e la stessa conclusione non conclude
piú.
E
se è cosí dei trascendentali, solo perché uno di essi è stato
trascurato, che ne sarà dell’essere stesso? Se Tommaso poteva
contrassegnare l’essere come “una certa luce” per l’ente,
questa luce non si spegnerà là dove si è disimparato il linguaggio
della luce stessa e non si lascia piú che il mistero dell’essere
esprima se stesso? Ciò che avanza è solo una porzione di esistenza
che per quanto, come spirito, pretenda attribuirsi anche una certa
libertà, rimane tuttavia completamente oscura e incomprensibile a se
stessa. La testimonianza dell’essere diventa incredibile per
colui il quale non riesce piú a cogliere il bello.
H. U. von Balthasar, Gloria
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